È un lavoro fare la mamma? È un ruolo? Ne può contemplare altri? Perché si entra in crisi quando qualcuno, mentre porti a passeggio il cane, ti chiede : ‘Che lavoro fai?” anche se di lavori ne fai tanti ogni giorno e pure il primo di maggio…
Da quando abbiamo adottato Fiona, un cucciolo nero di labrador e chissà quale altra razza, ogni mattina verso le otto la porto al parco vicino a casa. C’è un campo da baseball molto grande, recintato, dove incontriamo i nostri nuovi amici: Fiona gioca con Chica, Chewy, Maude e Milo e io parlo con i loro padroni. Una delle prime domande che fanno le persone che non si conoscono è: “Che lavoro fai?”.
Io non so mai cosa rispondere, perché non sono ancora sicura quale sia la definizione della parola lavoro. Vuol dire ricevere uno stipendio? Avere dei doveri, sì, ma anche dei diritti? Vuol dire produrre, creare, far carriera, andare in ufficio? O vuol semplicemente dire essere occupati a fare qualcosa? Io di lavori ne ho moltissimi, nel senso che sono sempre occupata a fare qualcosa, ma i miei lavori non sono retribuiti, non danno possibilità di carriera o sbocchi interessanti per il futuro e spesso non creano nulla, se non un paio di bucati fatti, un pollo arrosto, i ricambi delle lenzuola.
Il mio ruolo principale è quello di fare la mamma, che vuol dire:
avere delle eccellenti doti organizzative,
mettere in secondo piano qualsiasi altra cosa,
leggere nel pensiero dei pre-adolescenti, diciottenni e maschi autistici non verbali e a basso funzionamento,
saper confortare nei momenti di crisi,
trattenersi, a volte, nel fare commenti che potrebbero causare una guerra atomica in salotto,
saper contare fino a dieci in diciassette lingue
essere esperti in tutto, dalle mestruazioni a come curare il mal di gola o togliere una macchia di unto dalla maglietta preferita o tagliare i capelli
essere sempre disponibili anche se c’è un impegno, tipo andare dal medico, in palestra, da un amico: se l’infermiera della scuola chiama che uno ha la febbre, o se la scuola inizia tre ore dopo o finisce tre ore prima, si deve mollare tutto e precipitarsi da loro
non lamentarsi, perché vuol dire che non va mai bene niente
assicurarsi che i miei piezz e core siano fisicamente, mentalmente ed emotivamente soddisfatti, anche a costo di annullarsi come persona
varie ed eventuali.
Quando i figli sono a scuola o comunque fuori dalle palle, non mi resta che fare la spesa, il bucato, pulire, organizzare la loro vita dopo la scuola: corsi di musica e di sport, terapiste per Luca, decidere come intrattenerli durante gli interminabili fine settimane. Quando e se rimane del tempo e dell’energia, posso tentare di fare cose che mi appagano, tipo scrivere, prendere ansiolitici (il vino no: solo la sera) o fare una bella passeggiata adesso che è primavera. Il salario non esiste: alla mamma modello dovrebbero bastare le soddisfazioni che le danno i figli. Non importa che io abbia pubblicato due libri, ne stia scrivendo altri due, debba consegnare articoli in giro. La mia vera soddisfazione è quella che mi danno loro. A dire il vero, da qualche anno, da quando mio figlio Luca è diventato maggiorenne, lo stato mi paga per occuparmi di lui: sono diventata la sua badante. Cioè, sono sempre stata la sua badante, ma adesso ricevo 1400 dollari al mese e ho due settimane di ferie da passare lontano da lui, pagate, solo che non posso mai lasciarlo da nessuna parte per cui non le sfrutto.
Tutto questo non viene apprezzato fino a quando i ragazzi raggiungeranno l’età adulta, e dopo anni di psicoterapia capiranno che le mamme non sembra, ma sono degli esseri umani. Pur essendo segretamente contemplato non solo da me, ma anche dalle mie colleghe, nel ruolo di mamma non è assolutamente possibile dare le dimissioni, né prendere giorni di ferie né di malattia. Ricordo una volta che per disgrazia mi era venuto il febbrone, chiesi a mia suocera di venire a tenere Luca piccolo e lei mi disse: “Le mamme non possono permettersi di ammalarsi!” Lei l’aveva capito ben prima di me!
Il primo maggio, il Manifesto di Marx e Hengels, i sindacati, il pensionamento, i diritti dei lavoratori: niente di tutto ciò ci tocca minimamente. Siamo ancora come i bambini della fine Ottocento, che dovevano lavorare per dieci ore nelle fabbriche e che venivano sfruttati e maltrattati. Forse il femminismo ci ha un po’ aiutato, quando cioè alcune di noi si sono chieste: “Ma davvero un uomo, che si crede tanto superiore, non può imparare a cambiare un pannolino o a fare un bucato?” e hanno rivoluzionato, o tentato di rivoluzionare, alcuni aspetti della maternità, creando una cosa stranissima chiamata paternità.
Quindi, quando alla mattina alle otto, che spesso sono ancora con il pigiama sotto la giacca, con i capelli da pazza e l’alito pesante del primo caffè bevuto in fretta e il padrone di Chica mi chiede: “Che cosa fai di lavoro?”, mi vengono in mente i miei piccoli momenti di quotidianità che tanto mi stancano e tanto mi stufano, e la risposta è sempre la stessa: “Scrivo”.
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