Una spassosa, raffinatissima cavalcata di imprevisti e ironia in scena al Teatro Carcano per la regia di Mark Bell
Che disastro di commedia – in scena al Teatro Carcano fino al 13 maggio – è uno spettacolo meta-teatrale costantemente “a rischio”; questo, in primo luogo, perché la protagonista è una scenografia che, dietro l’apparenza coloristicamente sgradevole e raffazzonata di un fondale da filodrammatica, si rivela una macchina infernale, degna di Stephen King.
Essa si dà un gran daffare per schiacciare – letteralmente – i suoi coprotagonisti, ovvero gli imbranatissimi interpreti della commedia del titolo. Solo un eccezionale controllo dei tempi e degli spazi permette agli attori che impersonano questi guitti di non rimanere stritolati dalla malefica scenografia (congegnata da Nigel Hook), che si accartoccia pezzo per pezzo, come nelle più catastrofiche comiche di Stanlio e Ollio.
Un altro fattore di rischio deriva dal fatto che le risate ravvicinate e scomposte del pubblico (quello del Teatro Carcano è particolarmente esuberante) minacciano, dall’inizio alla fine, di sovrastare le battute, in barba ai tentativi degli attori – pur precisissimi! – di calcolare con esattezza le durate degli scoppi di ilarità.
Non che si possa biasimare qualcuno per questo: il pubblico ha tutte le ragioni per sghignazzare senza tregua, né si poteva chiedere agli ideatori di questo pluripremiato spettacolo (gli inglesi Henry Lewis, Jonathan Sayer e Henry Shields) di aumentare le distanze di sicurezza tra le loro funamboliche trovate. Men che meno si può muovere un appunto agli attori stessi, che devono rispettare una tabella di marcia rigorosissima, se non vogliono realmente beccarsi qualche pannello di compensato sul naso.
In ogni caso, l’eccessiva densità di risate non va a discapito dell’intelligibilità dell’insieme: Che disastro di commedia – anche nel suo adattamento italiano – riesce a tenere in vita per due ore uno spunto estremamente semplice (una compagnia teatrale di provincia mette in scena un farraginoso dramma investigativo) conservando per tutto il tempo un ritmo paragonabile a quello dei film di Buster Keaton, con la differenza che qui tutti (stra)parlano in continuazione.
Il principio fondamentale alla base della drammaturgia di Lewis-Sayer-Shields è elementare: fare andar storto tutto quello che può andare storto. La commedia del titolo è minata infatti non solo dalla scenografia assassina, ma da ogni tipo di imperizia tecnica (accessori di scena spostati, penuria di materiali, effetti sonori sbagliati) e dalle interpretazioni sopra le righe di dilettanti allo sbaraglio: c’è il capocomico perennemente in falsetto, l’istrione tronfio ma sfortunato, la primadonna esibizionista, il cialtrone gesticolante, il comprimario che sbaglia tutte le entrate, più alcuni sostituti dell’ultimo minuto altrettanto cani.
Già verso la prima metà di spettacolo ci si domanda cosa mai potrà ancora succedere, ma l’estro degli autori ha ancora in serbo un caterva di soluzioni, in un crescendo di perfidia. È particolarmente notevole nella sua brutalità una scena in un cui la primadonna e un’attrezzista improvvisano uno slealissimo incontro di wrestling per accaparrarsi l’unico ruolo femminile.
La regia di Mark Bell garantisce che tutto vada male nel migliore dei modi, così come gli attori danno il meglio del peggio di sé, affrontando coraggiosamente le insidie dello spazio scenico. L’accavallarsi forsennato delle risate impedisce talvolta di cogliere qualche finezza (per esempio nei molteplici giochi di sfasamento delle battute), ma del resto è pur sempre un’inevitabile attestazione del successo di uno spettacolo – esso stesso una macchina infernale – che comprensibilmente sta girando il mondo.