Tante proposte di cinema sulla realtà: una rassegna sui temi caldi dell’America d’oggi; la re-visione di un film documento del 1965 sulla difficile condizione sociale della Sardegna che diventa specchio dei malanni del mondo; un ritratto dei ciclisti gregari del Giro d’Italia, perdenti-vincitori; un viaggio nella storia universale e tra i virtuosi dello scacciapensieri, strumento ancestrale che avvicina i popoli
Sugli schermi italiani, e milanesi in particolare, è decisamente il momento dei film-documento. Mentre continua fino al 12 giugno al cinema Wanted Clan, l’interessante rassegna “A come America”, otto titoli dagli States introdotti da Roberto Festa di Radio Popolare e Dario Barone fondatore di Camera Distribuzioni Internazionali (martedì 22 sarà la volta di After Tiller di Marha Shane, che racconta il coraggio dei medici abortisti nell’intollerante America pro-life), debuttano sugli schermi tre film che declinano la documentazione della realtà, in modi stilisticamente molto diversi tra loro e raccontando storie collocate in tempi e luoghi assai diversi. Cercateli in giro per i cinema di qualità e su internet, perché la loro distribuzione, come purtroppo spesso accade per film di questo tipo, è abbastanza carsica.
Il primo è addirittura un documentario su un documentario, genere piuttosto inconsueto e all’apparenza dall’ostica fruizione: in Uno sguardo alla Terra il bravo Peter Marcias (già autore lo scorso anno di Silenzi e parole), 40enne regista sardo con un’ammirevole passione per la sua terra, mette al centro della sua analisi il lavoro di un “collega”, Fiorenzo Serra, che nel 1965 realizzò uno straordinario ritratto sociale, economico ed etnologico dell’isola intitolato L’ultimo pugno di terra, il cui titolo nasceva da un’antica leggenda che vuole la Sardegna originata dall’ultima manciata di terra rimasta in mano a Dio al momento della Creazione. Era un ritratto amaro ma imparziale, che in forma di cinegiornale raccontava frammenti di vita anche felici, festosi riti, accenni di modernizzazione ma nel quadro di una prevalente realtà di miseria e fuga, oltretutto in pieno boom economico nazionale. Un film, non è retorica scriverlo, che parla benissimo e chiarissimo, anche oltre 50 anni dopo la sua realizzazione, anche ai nipoti e pronipoti dei protagonisti che vediamo nelle immagini, e a tutti gli spettatori intelligenti, interessati al mondo che li circonda.
Accanto e in parallelo, in costante dialogo con gli spunti che nascono dalla re-visione del film di Serra, Marcias estrapola elementi chiave come la condizione femminile, il viaggio, il lavoro come schiavitù, la questione della terra, la realtà delle miniere, per usarli come spunto di riflessione e di contatto con importanti documentaristi di tutto il mondo (il napoletano Vincenzo Marra, il filippino Brillante Mendoza, il cinese Wang Bing, lo spagnolo José Luis Guerín), impegnati a loro volta a raccontare l’esperienza sociale e creativa, le speranze e le disillusioni nate dal loro lavoro e dal rapporto con la realtà, e più in generale il senso di fissare in immagini la vita sulla Terra e la condizione dei suoi abitanti. Ben sostenuto dal montaggio di Andrea Lotta e dalle musiche di Franco Potenza, Uno sguardo alla Terra ragiona sulla ricerca etnografica e il cambiamento dello spettatore, spesso fine ultimo del documentarista, mentre sullo sfondo scorrono le immagini del primo e del terzo mondo segnati come sempre da disuguaglianze e conflitti.
Forse un po’ meno meno accattivante è il reportage sul mondo del ciclismo professionale Wonderful Losers – A Different World del lituano Arunas Matelis, premiato ai festival Alpe Adria di Trieste, Varsavia e Minsk, che esce in concomitanza con il 101° Giro d’Italia, in pieno svolgimento in questi giorni, sulle cui strade il regista ha girato per diversi anni le immagini del film. Al centro, come indica chiaramente il titolo, c’è una figura particolare di “perdente”, il gregario, quel tipo di ciclista che corre in fondo al gruppo, distribuisce cibo e borracce ai compagni di squadra e il aiuta, soprattutto il “capitano”, a tornare tra i primi quando si attarda, per stanchezza o incidenti. Uno sconfitto in proprio ma un vincitore collettivo, nei momenti migliori, se il leader della squadra (ma non per forza lui) arriva primo al traguardo o vince dei premi, anche in danaro.
In qualche modo all’interno della categoria, perdente al quadrato si potrebbe dire, c’è chi, tra i gregari, cade e finisce malconcio, in ospedale o meno gravemente di nuovo in sella alla bicicletta ma pieno di cerotti, soccorso dal medico del Giro, che acrobaticamente sporgendosi dal finestrino dell’auto ufficiale lo disinfetta o gli dà un antidolorifico per portare a termine la gara. Il film, e questa è la sua prima atout, alterna molte interviste e riprese sul campo, percorrendo la via della sdrammatizzazione, dell’anti-retorica del campione invincibile per dare voce invece a chi di solito non è alla ribalta, lasciando però in parte spazio a un altro tipo di retorica, quella felice del sacrificio, dell’abnegazione del lavoro per la squadra e il gruppo, che forse così entusiasmante ogni giorno non sarà. Ma resta vero che questi giovanotti, impegnati come tanti altri coetanei a guadagnarsi una pagnotta probabilmente non ricchissima, suscitano indubbiamente una reazione empatica.
Decisamente più insolita, stravagante e magnetica è la ricerca del quasi 40enne e debuttante (nel lungometraggio) siciliano Diego Pascal Panarello: The Strange Sound of Happiness parte come la storia di una sconfitta esistenziale, la sua, cioè quella di un giovane non più giovane che torna vent’anni dopo a casa senza una vera prospettiva di vita. Ma di colpo il racconto di Diego muta approccio, traiettoria, diventa poetico e allusivo soprattutto grazie al suono, che può diventare anche ipnotico, di un piccolo pezzo di ferro, chiamato in Sicilia marranzano e più conosciuto al pubblico come scacciapensieri, già celebrato al cinema da Ennio Morricone in Per un pugno di dollari di Sergio Leone, Goran Bregovic in più di un titolo di Emir Kusturica, e diventato in qualche modo emblema dei misteri e dell’ironia della terra di Trinacria sullo schermo.
Diego, stregato da quelle note, si imbatte presto in un personaggio piuttosto esotico, il più grande solista al mondo dello strumento, che con sua grande sorpresa abita in Yakutia, terra che ha sentito nominare solo perché ci si imbatte giocando a Risiko. Invece il Khomus, che alla lettera vuol dire uomo magico, nel gelo di quella terra è lo strumento nazionale, venerato dalla popolazione, suonato da tanti e da alcuni con maestria e virtuosismo inarrivabili. Certamente in modo diverso da Diego, che pure dopo anni di esercizio è diventato bravo anche lui, e avrà applausi e onori nel festival asiatico cui sarà invitato tra i solisti locali più famosi allo strumento, nato durante l’età del ferro e diffuso nella forma che conosciamo oggi dai gitani del Rajasthan, e che esiste in tanti paesi sotto nomi e forme diverse. Nella remota regione siberiana è però un simbolo di felicità, perché le gradevoli vibrazioni dello strumento sono strettamente collegate alla scatola cranica, in modo da diventare un massaggio al cervello di chi lo suona, e da qui il nome italiano che allude alla spensieratezza.
Raccontato tutto in prima persona con la voce fuori campo di Panarello, The Strange Sound of Happiness è un documentario così personalizzato da essere de-oggettivizzato, un omaggio molto passionale e caldo a una terra freddissima e spirituale, che celebra un suono ancestrale capace di accomunare i popoli del mondo. Lungo il cammino l’autore incontra grandi suonatori, l’inventore dello scacciapensieri elettrico, abili costruttori, etnomusicologi. Senza mai abbandonare un tono ironico che rimanda alla curiosità del ricercatore e sdrammatizza il sapore di assoluto di un paese, ben fotografato da Matteo Cocco, di silenzi imponenti e luce candida, un biancore innevato che rimanda al chiarore roccioso della Scala dei Turchi di Sicilia, in riva al mare, che vediamo nel film, perfetta integrazione e contrappunto di un racconto di popoli lontani, affratellati dalla musica.