Marcello Fonte, appena premiato come miglior attore sulla Croisette, impersona in una ricostruzione molto libera il “Canaro” della Magliana, protagonista a fine anni ’80 di un delitto efferato. Indifeso padrone di un povero negozio di toelettatura per cani, vive i suoi pochi momenti di gioia in compagnia della figlioletta e subisce le angherie di un ex pugile violento e bullo, che lo porterà in prigione e alla sanguinosa rivincita finale. Per mostrare al mondo che anche lui esiste. Un racconto di degrado e orrore, una atroce storia d’identità e amore. Il miglior film del regista romano di “Gomorra” e “Reality”
Il protagonista di Dogman di Matteo Garrone, Marcello (Marcello Fonte, meritatissimo premio come miglior attore a Cannes 2018), è un ometto dalle ossa fragili e dal sorriso timido. Un uomo buono, dolce, un po’ smarrito, forse più capace di comunicare coi suoi amati cani che con gli esseri umani che lo circondano. Come un fragile vaso di coccio in mezzo a indistruttibili vasi di ferro, si muove sempre con cautela, un po’ di sghimbescio, percorrendo i margini dell’inquadratura, badando a non farsi notare. Come se il suo unico desiderio fosse quello di passare inosservato, in modo da poter continuare indisturbato a condurre la sua piccola vita, fatta di minuscole ambizioni e minimi piaceri. Un’esistenza umile e apparentemente serena, forse un po’ ottusa ma al riparo da grandi dolori, scandita dai momenti di pura gioia passati con l’adorata figlioletta (Alida Baldari Calabria) e dai tanti momenti di serenità in compagnia di cani grandi e piccoli, mansueti e feroci, che lui sa trattare con amore e competenza.
Il modesto negozio di toelettatura per cani di Marcello finisce col rappresentare il fulcro di un’esistenza tranquilla che consente al protagonista di ritagliarsi e difendere il suo ruolo nel mondo, un ruolo derelitto ma non miserabile, fatto di diverse sfaccettature non tutte legali e non tutte commendevoli, forse, ma ognuna funzionale al suo inserirsi in quel determinato universo. L’unico che Marcello conosce. E così il padre amorevole nonché lavoratore indefesso si rivela ben presto anche spacciatore occasionale di cocaina, in questa periferia estrema (di una Roma che non si vede mai) che ci appare come un mondo senza centro, dove il degrado è assoluto, la paura è la moneta corrente di scambio, la legalità una parola semplicemente priva di significato.
In questo spazio di frontiera non può che vigere la legge del più forte, incarnata da Simoncino (Edoardo Pesce, anche lui perfetto), un ex pugile grande, grosso e prepotente, che spadroneggia nella desolazione di un teatrino popolato quasi esclusivamente di figure maschili, variamente ottuse, variamente feroci. Un bullo che naturalmente trova nel mite Marcello la sua vittima prediletta, in un crescendo di vessazioni che inevitabilmente condurrà a un tragico punto di non ritorno. A un’esplosione di violenza. In apparenza a una vendetta, quella di Marcello, che in realtà si rivela come qualcosa di diverso: una pietra scagliata in faccia al mondo indifferente, un grido di rivolta, la ricerca di un riscatto, l’estremo e terribile tentativo di rivendicare il proprio diritto a esistere, a diventare visibile. Finalmente.
Perché il vero, reale dramma di Marcello è proprio l’invisibilità. Da tale condizione è nato quel bisogno inesausto e malato di essere visto, riconosciuto, in qualche modo salvato dallo sguardo dell’altro, quel bisogno di amore che ha spinto Marcello a farsi suddito (prima ancora che complice) di Simoncino, fino alla prigione, fino al disastro, fino alla catastrofica perdita del proprio (piccolissimo) posto e ruolo in quel piccolissimo mondo di disperati e miserabili.
Parlando di degrado, conviene specificare che Garrone in questo film non ci risparmia nulla quando si tratta di dirci quanto la vita quotidiana possa essere meschina, infelice, priva di prospettive. Ma il racconto procede per sottrazione, a partire da una scenografia totalmente astratta, un set teatrale che disegna una piazza a semicerchio racchiusa fra i palazzi di un quartiere del tutto immaginario, fra Ostia, Fiumicino e la Magliana. Una giostra abbandonata, un negozio Compro Oro, una sala giochi segnano il perimetro di una sorta di agorà attraversata ripetutamente dai protagonisti ma mai veramente abitata, e quindi destinata a trasformarsi in terra di nessuno, terreno di sfida e luogo di conquista.
Una scenografia essenziale per un racconto che fa dell’essenziale la sua cifra più autentica. Non una parola di troppo, non un gesto superfluo, non una scena che non si offra come necessaria. Il risultato è un film rigoroso e cupo, privo di speranza ma pieno di compassione, che si sottrae ad ogni facile desiderio di spettacolarizzazione, lasciandoci smarriti, affranti, del tutto spiazzati. Perché ci aspettavamo una storia di degrado e di orrore e abbiamo invece trovato una (atroce) storia d’amore.
In bilico fra neorealismo e astrazione, ispirandosi con molta libertà a un celebre fatto di cronaca nera degli anni Ottanta, il delitto del “canaro della Magliana”, Garrone ha firmato probabilmente il suo film migliore. Una straordinaria fiaba nera che somiglia a un western e scava sottopelle come un melodramma fiammeggiante, tenendoti in pugno dalla prima all’ultima scena. E intanto ti costringe a porti qualche scomoda domanda sul significato della parola dignità, sul desiderio di essere amati, sugli infiniti capricci del destino, sul sempre mobile e tragico teatrino nel quale si muovono vincitori e vinti, vittime e carnefici.