A cinque anni dalla Palma d’Oro a Cannes per “La vita di Adele” il 56enne regista franco-tunisino torna a raccontare (e mostrare) i giovani tra sentimenti ambigui e identità forti. In un film, “Mektoub, My love”, primo atto di una trilogia annunciata, fatto di belle immagini e dialoghi prolissi, corpi da ammirare e psicologie mutevoli. E un po’ di voyeurismo, che a tratti sembra però fine a se stesso
Dove finisce la voglia di libertà di vivere, cercare esperienze, amare ragazzi senza vincoli e inibizioni, rifiutando qualsiasi nozione di possesso duraturo nelle relazioni umane, sessuali, sentimentali, e dove inizia la capacità, anche involontaria, ma a volte no, di infliggere agli altri sofferenze, spesso gratuite, solo per mostrare al mondo la propria esistenza, un potere seduttivo, e disinteressandosi delle conseguenze che le proprie azioni potrebbero avere nelle menti e nei cuori di altri, e di “altri” che si conoscono da sempre? A questa domanda, certo non facile, non risponde, e per scelta, Mektoub, my love – Canto Uno, atto primo di una trilogia che il regista franco-tunisino 56enne Abdellatif Kechiche ha realizzato ispirandosi al romanzo La blessure, la vraie di Francois Begaudeau, co-sceneggiatore e interprete della Palma d’Oro La classe di Laurent Cantet.
Perché il film, lo si capisce subito, è un inno senza condizioni e remore alla gioia di vivere la propria giovinezza di un gruppo di ragazzi che si ritrovano in una città mediterranea d’estate per andare al mare, bere, parlare, ballare, amarsi. Moltissimo. Per 2 ore e 50. E fin dall’inizio è chiaro, un po’ come in Loro di Sorrentino, che l’impianto visivo e narrativo del regista, spinto in qualche occasione ai limiti del voyeurismo, rivela la sua gioia di vedere e mostrare soprattutto bellissimi corpi femminili. Tant’è che all’ultima mostra di Venezia è stato accusato di sessismo. Ma lui ha risposto: «Cosa intendete con machismo? Al contrario, ho ritratto donne forti, coraggiose, indipendenti. Ho messo il senso di bellezza che il corpo femminile scatena in me. È un film anarchico, nel senso nobile del termine. Si, qualcosa di autobiografico c’è nel mio protagonista: perché il Mektoub del titolo è il destino, una parola che noi associamo all’amore”.
Mektoub, my love – Canto Uno è stata un’impresa. Intanto perché era già un problema, e grosso, girare un altro film dopo la meritatissima Palma d’Oro di La vita di Adele; poi perché realizzarlo ha richiesto sforzi, anche economici e organizzativi, immani. Kechiche per portarlo a termine s’è venduto anche la statuetta vinta nel 2013 sulla Croisette. Ambientato nei primi anni 90, quando, sono sempre parole dell’autore «la gente viveva in modo più armonioso» e i giovani interagivano, comunicavano benissimo, forse perfino meglio di oggi, senza laptop e cellulari, il film parte subito con una scena di sesso, la più esplicita, per farci capire chi la farà da padrone: i dialoghi ripetitivi e i controluce che ricordano quasi Un uomo, una donna sono e saranno sempre abbinati ai movimenti dei corpi di protagonisti che si cercano, si avvicinano, si scambiano sguardi, lasciando sempre lo spettatore in attesa, abbastanza vana tutto sommato, che accada davvero qualcosa tra loro. E questi ragazzi ricominciano ogni giorno da capo, da zero, come cartoon quasi indistruttibili, incassando tradimenti e rifiuti e ingurgitando alcool e sostanze varie in gran quantità. Notte dopo notte, shottino dopo shottino, ballo dopo ballo, bacio dopo bacio. Nel film si ama (e si finge anche un po’ di amare), si fa sesso, si esibiscono sentimenti e storie, forse verosimili più che veri.
Tutto parte dall’incontro tra Ophelie (Ophelie Bau) e Amin (il bel tenebroso Shain Boumédine, che prima del provino faceva il cameriere, come il suo personaggio a Parigi), volto vivo, intelligente, sorriso luminoso e un po’ ambiguo, l’unico che nel film non ha l’ossessione della seduzione, o forse la cela, diversamente dagli altri. “I migliori momenti di poesia del film – dice Shain, e ha ragione – sono la nascita di due agnellini in una stalla, o la famiglia e le ragazze conosciute al mare che mangiano spaghetti in spiaggia”. E sembra divorino la vita, assaporandola avidamente. Amin, studente disilluso dalla medicina, sogna il cinema (da sceneggiatore) e adora fare fotografie, di tutti i tipi, dagli agnelli alle ragazze nude, e lo proporrà senza successo anche a Ophelie, morbida e disinibita compagna di giochi d’infanzia.
Lui, per l’estate è tornato a Sete, la sua città natale – e quella in cui Kechiche aveva ambientato nel 2007 il suo film-rivelazione, Cous Cous – dove ritrova gli amici del passato e la famiglia, soprattutto il cugino farfallone Toni (Salim Kechiouche, l’unico volto noto del cast insieme a Hafsi Herzi, che per Cous Cous vinse il premio alla migliore rivelazione a Venezia), amatore compulsivo e mitomane: l’esatto opposto di Amin, che è taciturno, schivo, quasi un anti-personagio, anche per l’estraneità a questo mondo, che pure è stato il suo fino a poco tempo prima e che guarda “da fuori”, un po’ come Kechiche per statuto registico. Toni è l’amante occulto (ma non tanto) di Ophelie, promessa sposa al pilota Clement, di servizio sulla portaerei De Gaulle in Medio Oriente, ma ogni sera ne abborda una diversa, a cominciare dalla turista Charlotte, che finirà bruciata perché se ne innamora. Le ragazze sono disinvolte, vogliono divertirsi: Celine, l’amica di Charlotte (Alexia Chardard), o Camelia, la zia di Ophelie (Hafzia Herzi), ma anche il papà di Amin non scherza, attraversa il film quasi sempre ubriaco, abbracciando ogni ragazza, preferibilmente di 30 più giovane, che gli capita a tiro. Sotto gli occhi teneramente seccati ma in fondo un po’ arresi della moglie (Delinda Kechiche, la sorella del regista). E come lui tanti altri ragazzi di varie età.
Un film sui giovani alla fine della loro giovinezza, un po’ nello stile dei vecchi film americani alla Ultimo spettacolo, ma meno disperato: ragazzi ormai quasi al momento di decidere cosa fare delle proprie relazioni (Ophelie e Camelia stanno per sposarsi, dicono) e del loro futuro (Amin prima di tutto). Ma, ancora una volta, quello di Abdellatif Kechiche è soprattutto un cinema che incarna, letteralmente, l’uomo. E ancor più la donna. Non ha interiorità da esprimere, un intimo da esplicitare, il suo sguardo è tutto quanto di fuori. Come quello nero e limpido di Amin, che ormai sta a Parigi, o quello delle due turiste nizzarde incontrate in spiaggia, e forse non è un caso che il film finisca con Amin e Charlotte che se ne vanno insieme. Uno sguardo che rivela ciò che inquadra: il mondo, gli altri, gli scambi, le danze, la gioia, la febbre, l’inquietudine, l’amore, il sesso. Una poco ritmata dichiarazione d’amore frontale alla vita e al cinema, alla gioia della rappresentazione dove tutto si confonde e rovescia. Un po’ come in Marivaux. O Rohmer, per nobilitare. Cos’ha capito, che cosa ha appreso Amin da tutte queste storie? Che cosa abbiamo appreso noi? Forse poco, come Jep Gambardella nella Grande bellezza, convinto alla fine, come tanti grandi eroi del cinema, da Citizen Kane a Liberty Valance, che è meglio il vero dell’immaginazione e della fantasia piuttosto di quello della realtà.