‘Giovanni’s room’ letto a 20 anni era sembrato un romanzo sulla difficoltà di dichiararsi omosessuale e di vivere liberamente quella condizione; letto oggi appare un più straziante romanzo sull’impossibilità di amare quando il terrore ti stringe
Lo scelsi perché nel titolo c’era il nome Giovanni e, senza neanche notare l’autore, pensai immediatamente fosse un libro italiano: mi ero trasferita negli Stati Uniti da qualche anno, e avevo ormai terminato tutti i miei libri portati da Milano. Avevo letto due volte Il Nome Della Rosa e Se questo è un uomo, gli altri, anche quelli che non mi erano piaciuti, li avevo comunque finiti e ricominciati, lasciandoli a metà.
Per cui ero disperata. Ormai parlavo inglese abbastanza bene e mi sentivo pronta per affrontare un romanzo in lingua originale, anche se quel nome, Giovanni appunto, mi aveva per un momento fatto sperare. Invece no.
Giovanni’s Room – La stanza di Giovanni in italiano – è un romanzo scritto nel 1956 da James Baldwin, che, oltre a scrivere, avrebbe qualche anno dopo partecipato a molte delle battaglie per i diritti civili fianco a fianco con Martin Luther King, Malcom X e tutta quella banda. Inoltre, era l’intellettuale di punta di un gruppo importante di attori, scrittori, poeti neri: Nina Simone, Maya Angelou, Henry Bellafonte, Miles Davis, ma frequentava anche persone influenti come Robert Kennedy, Jean Paul Sartre, Allen Ginsberg. Stanco del modo in cui i neri venivano allora trattati, e soprattutto di come gli omosessuali come lui fossero considerati persone diaboliche, si trasferì a Parigi negli anni ’50, dove scrisse questo incredibile libro.
Il linguaggio che usa Baldwin è estremamente sofisticato e denso: non tanto per il vocabolario, che malgrado il mio inglese non perfetto riuscivo quasi sempre a comprendere, quanto il modo di raccontare, pieno di accurate descrizioni, con una voce malinconica, ma allo stesso tempo estremamente razionale, con infiniti controsensi, tipici di chi, pur avvertendo delle esigenze sentimentali e viscerali, le vuole superare con un’impenetrabile logicità. È un libro che non si può leggere in metropolitana, andando in ufficio. Richiede concentrazione, rilettura, raccoglimento.
David è un americano che si trasferisce a Parigi, forse per cercare di dimenticare quello che tante estati prima gli era successo quando, per la prima volta in vita sua aveva provato una forte attrazione nei confronti di Joey, il suo migliore amico con cui ebbe un rapporto sessuale. Baldwin descrive la scena con un’accuratezza quasi paralizzante: descrive la paura provata da David che lo spinge, da quel momento, a decidere che non avrebbe mai più avuto un amante e di vivere da eterosessuale.
Poi invece, anni dopo, incontra Giovanni, che ama e con cui convive per un po’, ma che allo stesso tempo odia follemente, perché lo mette davanti a una realtà che aveva anni prima rinnegato. Si trova così in uno tsunami tra la passione e emozioni, cacciate via da un’ impetuosa razionalità, che alla fine vince: il terrore, provato anni prima, gli farà abbandonare sia Giovanni che Hella, la donna con cui avrebbe dovuto sposarsi. David si ritrova completamente solo, triste, sconfitto.
La prima volta che lo lessi, pensai che fosse un libro sulla difficoltà di essere apertamente omosessuali, specialmente perché sapevo che era stato scritto negli anni ’50: David era per me la vittima di un sistema che gli imponeva di vivere una vita di bugie, pur di non subire discriminazioni. Era la vittima e anche l’eroe triste, solo, incompreso.
Rileggendo questo splendido libro qualche mese fa, a più di vent’anni dalla prima volta, con un mio bagaglio di vita ben diverso da allora, con delle esperienze che mi hanno in qualche modo soffiato via la patina di romanticismo tipico dei vent’anni, mi è quasi sembrato un libro completamente diverso, molto più profondo e desolante: Baldwin ci ha presentato un personaggio in cui ci identifichiamo a tratti, nella sua battaglia interiore, ma che, impregnato di terrore, è assolutamente incapace di amare. Il contrasto utilizzato dall’autore tra un amore omosessuale o eterosessuale non è che un pretesto come un altro per descrivere questo drammatico punto: in realtà avrebbe potuto usare altri contesti per esprimere lo stesso messaggio. David ama Giovanni, ma ha paura e quindi decide di odiarlo; vuole sposare Hella, ma ha capito che sarà sempre attratto da uomini per cui finisce anche la loro relazione: il libro è pieno di questi sentimenti contrastanti, come contrastante e altalenante è la vita di David. Come contrastante e altalenante è spesso il linguaggio di Baldwin.
A vent’anni, invece, pensavo che la passione, la follia, la delusione e il dolore provati in una relazione fossero tutte parti necessarie per creare quello che noi chiamiamo amore, e che il fatto che la società abbia il potere di negarcelo è sorprendente. Allora non concepivo una vita decisa a tavolino, il cui scopo è quello di evitare a tutti i costi di amare. D’altronde vent’anni è l’età giusta per credere ancora alla magia dell’amore splendido, eterno, non condizionato dalle realtà complesse della vita. A cinquant’anni, dopo ventotto di matrimonio, mi è sembrato invece un racconto molto più straziante di come me lo ricordavo, perché non c’è nulla di più drammatico che decidere di rinunciare ad amare e a rimanere completamente soli.
Ho chiuso il libro per la seconda volta e ho pensato che James Baldwin è un genio. Ma questo lo avevo capito anche prima.