Diretta da Daniel Harding e con la regia di Peter Stein, l’opera forse più nota del signore del Lied e mai rappresentata al Piermarini
Alla Scala è in corso un atto di giustizia. Per sette recite, dal 5 al 30 giugno, rivive un’opera mai vista né sentita, al Piermarini. Eppure è di Schubert. S’intitola Fierrabras, è un’”opera eroica romantica” (Schubert) molto liberamente ispirata alle chansons de geste, ha 195 anni ma ha dovuto attenderne più di centosessanta per essere eseguita come-si-deve (Claudio Abbado, Vienna, 1988).
Non è colpa di Milano, della Scala, dell’Italia (che anzi ha creduto in Fierrabras già nel 1978) se un capolavoro pieno di musica bellissima, che tocca il cuore, non ha raccolto onori ma umiliazioni. E ai contemporanei di Franz, nell’età d’oro del Classicismo e del Romanticismo, nella Vienna di ogni bellezza e qualità (musicale) – ma dalle condizioni igieniche infami per poveri e indigenti -, va il merito di aver esibito il più crudele disinteresse nei confronti di questo titolo e del suo autore.
Schubert, il signore del Lied, il poeta delle piccole cose, il musicista dei minimi trasalimenti, dei dialoghi interiori, dei pochi strumenti, di pianoforte e voce, di trii, quartetti e quintetti d’archi e con tastiera, ha dunque scritto un’opera? No, tra iniziate e incompiute, in varia forma e dimensione, ne ha progettate 16, più delle Sinfonie. Fierrabras è l’ultima disperatamente voluta nella concreta speranza di poterla anche vedere in scena, perché il librettista (modesto), Josef Kupelwieser, era uomo con un po’ di potere, segretario del Teatro di Porta Carinzia. Niente. “Un’altra opera inutile” pianse Schubert.
In otto mesi, prima che il tifo, più che il regalo di una delle poche ore d’amore, lo stroncasse a trentadue anni, il 19 novembre del 1828, Franz Schubert scrisse una quantità impressionante di capolavori. Pochi vennero pubblicati quand’era in vita. Nessuno glieli eseguì. Ha senso ricordare la disperazione dell’uomo per capire la sua musica? Sì, perché senza conoscere il dolore pagato per conquistarsi “il diritto di un posto su questa terra”, sfugge il senso di un teatro musicale come quello di Fierrabras, troppo eccentrico rispetto agli schemi dell’Opera con la O maiuscola che dilagava a Vienna divorando incassi e commissioni, facendo impazzire Beethoven, Schubert e Weber: l’opera di Rossini, il repertorio “nostro”, le compagnie italiane. (C’è stato un tempo in cui tutto quel che veniva dall’Italia si idolatrava e si pagava a qualunque prezzo. Sorprende?). Ma nemmeno somiglia troppo, Fierrabras, all’opera tedesca, al Singspiel con dialoghi parlati che si allungano fra i numeri chiusi: Fierrabras è in dérapage anche da quella forma: dei 23 numeri di cui si compone, quindici sono cori. Grandi arie solistiche per primadonna, una sola, di Florinda nell’Atto secondo, e anche i duetti, i terzetti, i quartetti iniziano o finiscono nel coro, vi convergono. Oggi, una fortuna: se l’arma più affilata che la Scala possieda, fra tutti i teatri d’opera, è la qualità del Coro che Bruno Casoni dirige da anni, è facile intuire quanto Fierrabras abbia in questo allestimento un eccellente rimedio alla sfortuna critica di Schubert.
L’altro filo scaligero dello spettacolo si chiama Daniel Harding, indiscutibile “scoperta” di Claudio Abbado. Nello scatto, nella calibratura dei pesi, nella leggerezza e nella trasparenza strumentale, nell’evidenza delle voci interne al fraseggio, si riconoscono i tratti di un maestro scaligero indimenticato che, proprio in Schubert, nell’integrale delle Sinfonie con un’orchestra giovane come la Chamber Orchestra of Europe, ci ha consegnato il profilo più moderno e rivelatore di Schubert. Profilo sul quale Harding ha innestato il suo talento e la sua personalità.
Nel cast va una certa predilezione alla Emma di Anett Fritsch e al Fierrabras di Bernard Richter, ma in una compagnia con Dorothea Röschmann come Florinda e Markus Werba come Roland la proprietà di stile è un tratto sicuro; e il pubblico apprezza anche il Re Carlo (Magno) di Tomasz Konieczny, l’Eginhard di Peter Sonn, il Boland di Lauri Vasar. (Oltre all’ancella Maragond di Marie-Claude Chappuis; all’Ogier di Martin Piskorski, al Brutamonte di Gustavo Castillo, allievo dell’Accademia).
La trama di Fierrabras? Non è crudele allontanarla dal cuore dell’opera e tenerla come sfondo. Intricata, a tratti paradossale, si condensa in un gioco di rapporti incrociati fra cristiani e mori, di armi e di affetti. Carlo Magno vince contro il principe Boland. Emma, figlia di Carlo, ama il cristiano Eginardo ma è amata dal moro Fierrabras, non ricambiato. La figlia di Boland, Florinda, vuole fortissimamente Roland (Orlando), che pure non può togliersi dalla testa lei dopo un incontro di quattro anni prima. Ma dove si erano visti i quattro? Nella Città Eterna, forse in qualcosa di simile a vacanze romane, qualche secolo prima della Vespa. Il girotondo delle catture, delle fughe e delle conversioni non fa che complicare una storia sostanzialmente ferma, segnata da due linee: ai genitori la guerra, ai figli l’amore. Una carta resta sparigliata: Fierrabras, il fortebraccio musulmano, si converte e diventa eroe del campo avverso, ma infine rimane solo e senza amore.
Peter Stein, per questo spettacolo nato a Salisburgo, ha sentito il bisogno di dipingere con un certo scrupolo l’ambiente storico da ciclo carolingio, pur “corretto”: tutti sono vestiti in costumi d’epoca, o simil, di Anna Maria Heinrich; le scene (dieci fondali in bianco/grigio/nero disegnati da Ferdinand Wögerbauer) si dicono ispirate alle architetture di Piranesi, senza che il modello sia particolarmente visibile. Nello sbiadito affresco d’epoca, gestualità e movimentazione vagano “in tinta”. Sorprende che un grande regista come Peter Stein si sia lasciato andare a tanta routine decorativa. Assecondare la dimensione storico-favolistica di Fierrabras non rende alcun servizio a quest’opera e a Schubert. Per la sua lettura, Claus Guth scelse non meno prevedibilmente la metafora freudiana, identificando fisicamente Fierrabras con Schubert. Forzatura monotematica, certo, ma che arriva al cuore dell’opera.
Nella fragilità dell’eroe nobile ma sconfitto c’è tutta la desolazione di Franz e tutta la forza di Schubert. La lente dell’immaginazione sembra ancora la più utile per farsi travolgere senza divagazioni dal flusso di bellezza che scorre in Fierrabras dall’inizio alla fine. Anche chiudendo gli occhi. Perché, come disse Mario Bortolotto nella prima radiofonica del ’78, “Fierrabras è di una schubertianità quasi insolente”.
Fotografie © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala