In “L’atelier” un gruppetto di giovani aspiranti scrittori, guidato da una celebre autrice di noir, s’impegna a immaginare un thriller ambientato nella loro città, La Ciotat, un tempo centro nevralgico del lavoro operaio, coi suoi cantieri navali, ma oggi in piena crisi. Passato e presente, frustrazioni storiche e d’oggi si mescolano nel film sullo sfondo di una Francia attraversata da pulsioni razziste
Il 56 regista francese Laurent Cantet recupera la fortunata forma classe, che nell’omonimo film gli aveva regalato nel 2009 la Palma d’oro al festival di Cannes, e nel suo ultimo film L’atelier, passato a sua volta l’anno scorso sulla Croisette nel Certain regard, ricostruisce un rapporto tra insegnante e studenti, ma in una forma ridotta e particolare, quella di un corso di scrittura. Siamo a La Ciotat, cittadina mediterranea non lontano da Marsiglia, patria delle calanche, bellissime formazioni rocciose a picco sul mare – in parte, almeno visivamente, protagoniste del film – ma soprattutto, fino a 30 anni fa, una delle capitali della cantieristica francese di grandi dimensioni. Ma quell’era di felice identità operaia, di lavoro e tessuto sociale ricco, come ha insegnato in tanti suoi bellissimi film Robert Guediguian è da tempo passata, e la disoccupazione, la fuga dei giovani la fanno da padrone, benché un residuo di attività, nella nautica di lusso, garantisca ancora qualche posto di lavoro.
Olivia, una scrittrice di racconti noir di successo (Marine Fois), candidata per questa sua prova al César, viene così incaricata di condurre un workshop di scrittura, indirizzando una decina di giovani studenti, tutti un po’ “difficili”, ognuno a suo modo, a scrivere una trama, preferibilmente thriller, che abbia però a che fare col passato, glorioso ma certamente irripetibile, della loro città, e con le riflessioni che un presente assai meno roseo suggerisce loro. Ma il passato, e soprattutto rileggere il passato, ha un senso per loro? E qual’è? O sono soprattutto stanchi di ascoltare discorsi sul passato, che è sempre inesorabilmente migliore, secondo gli adulti, del presente in cui però devono vivere loro?
Si delineano subito, in parte anche qui come in La classe, conflitti di approccio stilistico e piscologico fra i ragazzi e le ragazze, che rimandano alla loro formazione, alle ipotesi di temi e modi di scrittura, ma soprattutto alla loro provenienza etnica. E fin dall’inizio il ruvido e razzista Antoine (l’ottimo Matthieu Lucci) che pur evidenzia grandi fragilità, ritrosie e solitudini, non fa mistero di avere in antipatia non solo la docente snob e affermata, ma tutti i presenti che solo per i nomi o il colore della pelle possono rimandare ai recenti attentati jihadisti che hanno insanguinato la Francia, dal Bataclan a Nizza. Antoine, in cerca di un’identità che resta ancora molto vacillante, si fa forza degli slogan di cattivi maestri che frequenta la sera e ascolta online. Così provoca di continuo tutti, Olivia e i suoi studenti neri o di origini arabe, sabotando di fatto il corso fino a venirne in pratica espulso. E qui esploderà a sua volta il suo rapporto complesso con la scrittrice, morboso almeno in potenza e sempre in bilico tra seduzione e ricerca di comunicazione. Fino al drammatico ipotizzato omicidio/suicidio finale che domina l’ultima parte del film.
Il progetto di L’atelier è del 1999 e questo lo colloca, nello stesso anno di Risorse umane, il film che ha lanciato Cantet presso il pubblico internazionale, tra i suoi titoli più politici e sul lavoro, o meglio su quello snodo storico tra la lotta di classe storica e la presente età del precariato e delle rivolte individuali. Ma i vent’anni che ci sono voluti per realizzare il film hanno innestato nel racconto il tema dell’estremismo islamista penetrato in estrema profondità nelle psicologie e nei ragionamenti della gente, e la paura di vivere oggi in Francia continuando in qualche modo ancora ad “andare verso gli altri” (sono parole di Cantet): è il tema del dilagante spirito neonazionalista, violento e destrorso che in quella società, ma ormai in tutta quella europea, ha messo forti e assai pericolose radici, anche grazie al disinvolto e irresponsabile rapporto di molti ragazzi con la Rete.
In termini stilistici, questo passaggio di tempo ha dato spazio alla grande la familiarità e predilezione che intanto Cantet ha maturato per le atmosfere e il genere noir, e questo ha sostanzialmente contribuito a dare al racconto, in questo film, una forma che nel complesso intrigo, anche morboso, tra Antoine e Olivia, trae uno dei suoi punti di suspense. Anche perché per un autore che ha sempre fatto della parola un suo punto di forza, esplodono con più energia del solito le immagini, tanto che L’atelier inizia con una sequenza tratta da un celebre videogioco, The Witcher 3, e finisce con la sua parte, forse meno riuscita, in chiave noir. Che però ha una sua solida giustificazion nel fatto che per Antoine, come per tanti altri giovani, oggi la parola ha perso senso e peso e conta solo l’azione, che al cinema si racconta con l’immagine, le immagini “di azione”, appunto.