Il successo di 2001 Odissea nello spazio, si sa, è frutto del genio del regista inglese. Eppure le musiche del grande compositore magiaro hanno contribuito, e non poco, a perpetuarne il mito
GYÖRGY LIGETI. Ligeti chi? Usando il metro dell’ignoranza globale, se un nome non evoca nulla in cinque secondi, vuol dire che non c’è, non è trendy, non esiste, non è niente. Ma in musica i nomi e le parole non contano, contano i suoni, e la musica di Ligeti un po’ la conoscono tutti, non nella forma originale ma nelle mille forme derivate; ha fatto vibrare i timpani di molte generazioni a loro insaputa, soprattutto a loro insaputa. Ligeti è stato strappato all’angolo della Cultura grazie al cinema. Molti registi e compositori hanno capito quanta suspense ci sia in quel modo di trattare gli strumenti spellandone la camicia come a un filo elettrico, lasciando nuda l’energia fino a scottare l’emozione. Senza la musica di Ligeti, Jack Nicholson che, ascia in mano, insegue Shelley Duvall in Shining, terrorizzerebbe la metà. Non c’è thriller che non abbia preso le misure sulla musica di Ligeti per fare accapponare la pelle. Lo sanno bene i John Williams e i David Zinman, ma anche Ennio Morricone, e infine tutti. Poco di questo compositore ungherese, morto ottantatreenne nel 2006, è rimasto senza imitazioni. E non parliamo di “effetti” ma dell’esatto contrario: di purezza, di smaterializzazione alle estreme conseguenze.
ODISSEA. Da pochi giorni anche 2001 Odissea nello spazio è entrata nelle sale volando sul tappeto delle pellicole “restaurate”, e con quella in prima apparizione dobbiamo fare i conti per misurare la fama (sempre inferiore al merito), la fortuna critica (altissima) e la penetrazione (globale) di un compositore di origini balcaniche diventato moderno fra i moderni, che da radici quasi folk ha conquistato la luce diafana dell’astrazione. I primi a celebrarlo sono stati quel film e il suo regista, nel 1968. Stanley Kubrick adorava Ligeti e nell’Odissea usò diverse musiche di György per dilatare prospettive già senza confini in un capolavoro che ha immerso il principio di relatività (estetica) nel modo di immaginare l’idea stessa di futuro. Quattro brani – che pochi conoscevano e non tutti riconoscevano come grandi – vennero immersi nella pellicola senza cui Star Wars e tutte le altre “fantasie” nemmeno sarebbero esistite. Titoli che parlano: Atmosphères (1961), Aventures (1962-66), Lux Aeterna (estratti da, 1966), Kyrie (dal Requiem, 1963-65). Senza di quelli, ancor oggi vedremmo un altro film.
KUBRICK, GENIO E MASCALZONE. Ingaggiando quelle musiche per una delle più grandi avventure dell’occhio moderno, Stanley Kubrick (New York, 1928) fece del bene a Sandor György Ligeti (Transilvania, 1923), ma suo malgrado anche lui, per essere gentili. Fu ancora (e sempre) genio nell’associare la musica più varia e più audace alle sue personali vertigini, ma anche mascalzone, perché non chiese permesso a Ligeti, nemmeno l’informò e rimaneggiò molto gli originali (come aveva già fatto con la Sarabande di Handel in Barry Lyndon, peraltro senza sbagliare: anche “sinfonizzato”, il tema della Follia colpiva il bersaglio).
Da artista, Ligeti fu felice del modo in cui le sue musiche erano state usate; da uomo no: intentò causa a Kubrick e vinse su tutto a mani basse.
Ligeti non era solo in quella colonna sonora, si sa. C’erano An der schönen blauen Donau (Sul bel Danubio blu) e Also sprach Zarathustra (Così parlò Zarathustra): il più struggente dei valzer e l’attacco più turgido dell’intero repertorio sinfonico, “da” Nietzsche. Il più leggero degli Strauss, Johann, e il più pesante, Richard. Gemelli diversi di una convivenza magica, in triangolo miracoloso con l’opposto di entrambi: l’astratto Ligeti maestro di visioni. E qui dobbiamo arrenderci a Kubrick: se n’è andato il mascalzone ed è rimasto il genio. In 2001 Odissea nello spazio si consumò un ratto, più che un matrimonio, ma le discendenze non sono meno vive. Le troviamo di continuo nella musica che ascoltiamo, dentro e fuori ogni schermo. Quando osiamo scendere i gradini del mistero che è in noi.