La città-stato di Miden è un’oasi in cui i giovani, per sfuggire al tracollo sociale, psicologico, emotivo del Paese e di se stessi, si rifugiano (se accolti). Ma risulta difficile comprendere se si tratti di un mondo distopico o, quasi, di uno utopico.
Il Paese sta crollando. Ai giovani, privati di qualsiasi forma di futuro – perfino della concezione stessa di futuro -, non resta altro che rinchiudersi nella nostalgia, nella disperata idea che “se solo fosse stato possibile tornare al sugo della nonna come al brodo primordiale che ci aveva generato, avremmo potuto rimettere le cose a posto”. I ragazzi di questo Paese al tracollo, non più bambini, ma nemmeno adulti, bloccati in una post-adolescenza infinita, pensano a se stessi come la generazione perduta, usando la definizione che Hemingway usò per coloro che erano cresciuti durante la Prima Guerra Mondiale: una generazione traumatizzata, incapace di riprendersi o di guarire. “Nelle indagini su quella dannazione al tracollo, nessuno ci aveva mai chiesto se fossimo innamorati. Non ce lo chiedevamo più neppure noi. L’infelicità si misurava su un’altra scala”. Quella che potrebbe essere benissimo una descrizione presa dal manifesto generazionale di Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, è in realtà il punto di partenza del nuovo romanzo di Veronica Raimo, Miden.
Miden ipotizza che alcuni di questi giovani, per fuggire dal tracollo sociale, psicologico, emotivo del Paese e di se stessi, abbiano un’oasi in cui rifugiarsi (se accolti): la città-stato di Miden. È difficile classificare Miden dal punto di vista del genere: tutto l’assunto speculativo sta infatti nella descrizione, estremamente dettagliata, di questa cittadina. Miden sembra uscita da uno dei racconti di Le Visionarie, antologia di scrittrici sci-fi, di cui Veronica Raimo ha curato, insieme a Claudia Durastanti, la traduzione italiana. Nella postfazione scritta da loro, infatti, Raimo e Durastanti notano come, sia come lettrici, che come scrittici, “un certo tipo di realismo – chirurgico, analitico, rigoroso – aveva smesso di incuriosirci e stimolarci.[…] Il filtro del realismo sembrava generare un senso di inadeguatezza nel raccontare le storie che volevamo raccontare”. Miden, cittadina e romanzo, nasce proprio da qui.
MIDEN
Miden vive nell’ambiguità. Già fin dai primi momenti, infatti, risulta difficile comprendere se si tratti di un mondo distopico o, quasi, di uno utopico. È una cittadina che, in risposta al caos informe del mondo esterno (soltanto lievemente accentuato rispetto a quello di adesso, fra Trump e bomberismo) ha deciso di chiudersi a riccio, di creare un’enclave d’ordine. Tutti quei valori liberal, come l’ambientalismo, l’uguaglianza, il femminismo, in Miden hanno trovato un luogo dove prosperare ed esaltare.
Avevano una parola a Miden, che si vantavano rispecchiasse il loro spirito. Potrebbe essere tradotta all’incirca con “accogliente” ma in un’accezione più calda, familiare, che implica uno sforzo consapevole e dedicato di ricreare un’atmosfera domestica, intima, il cosiddetto focolare.
Eppure emergono abissi piuttosto inquietanti e perversi. La stessa parola accogliente, se da un lato vuole far suo uno dei gesti più profondi della solidarietà umana, dall’altro sembra uscita direttamente dalla neolingua orwelliana nel momento in cui viene usata per indicare come debbano essere cimiteri, discariche, ma soprattutto il sesso. È, infatti, sul sesso, sulla sua definizione e sui rapporti di potere che implica inevitabilmente una relazione sessuale, che tutte le contraddizioni di Miden esplodono.
Miden (il romanzo) racconta il processo cui viene sottoposto un uomo (il compagno) nel momento in cui una sua studentessa, con cui ha avuto una storia, lo accusa di averla violentata. Il sistema giudiziario di Miden prevede che la ragazza (indicata come Subente) elenchi tutte le pratiche sessuali a cui il Perpetratore l’ha sottoposta – vere e proprie “figure mitiche” come nota la moglie del compagno. Miden, quindi, rifiuta la complessità, l’ambiguità, a favore di una freddezza e di un ordine dicotomico rassicurante. Giusto e sbagliato. Bianco e nero.
Più il processo va avanti, più emerge il perbenismo borghese che sta alla base di Miden. Lo stesso femminismo che permea l’intera cittadina è il femminismo del #metoo e di Hillary Clinton. È un femminismo addomesticato e normalizzato. Un femminismo che ha escluso la complessità, l’ambiguità, ma che è costruito per essere facilmente condivisibile. È un femminismo che parla per slogan e dicotomie. Ma è un discorso che è facilmente estendibile a tutta la sinistra che abita Miden: non più una vera e propria sinistra, ma una sinistra che è stata sfruttata per creare magliette, t-shirt e borse ecologiche alla moda. In Miden è facile scorgere le accuse che Jessa Crispin muove al femminismo di questi anni, in particolare quello di essere “un modo per censurare e mettere a tacere chiunque non sia d’accordo, ispirato dall’ingenua convinzione che il disaccordo o il conflitto siano forme di violenza” e che il suo scopo non sia altro che quello di “consentire alle donne di partecipare, alla pari, all’oppressione dei deboli e dei poveri”. Ecco, la città-stato di Miden appare come la realizzazione del sogno di questo tipo di femminismo.
IL CAPRO ESPIATORIO
È al compagno che si devono molte delle riflessioni sul Paese in crisi. È lui che se ne è andato, fuggendo a Miden, cercando di avere se non un futuro, per lo meno un presente. Qua, insegna filosofia in un’accademia d’arte, professione che nel Paese non avrebbe mai potuto fare (ritorna la classe disagiata di Ventura). Ha una moglie, la compagna, e fra pochi mesi diventeranno genitori. Poi un giorno, arriva a casa loro la studentessa, rivela di essere stata violentata, e inizia il processo.
Miden alterna i punti di vista del compagno e della compagna. Questo ci permette di entrare in profondità nelle loro emozioni e nella loro preoccupazione. Però è anche un’arma abbastanza a doppio taglio, e ne è un esempio la prima impressione che si ha del compagno. In contrasto con l’apprendere che è accusato di aver violentato la ragazza, l’uomo ricorda il aver “conservato le sue mutande per mesi. A lei piaceva venire da me e tornarsene a casa senza mutande. Ne avevo un cassetto pieno. Poi un giorno quando l’ho aperto mi è venuta la nausea. Un odore osceno che non aveva più niente a che fare con lei. E comunque il suo odore l’avevo già perso da tempo, e non era mai stato un granché. Ma il resto sì. Le tette, il culo, le gambe”. Una crudeltà, una mancanza di empatia, che è rivolta anche verso la compagna, descritta come sempre in lacrime, come una donna che “un giorno parlava dell’uomo che verrà, il giorno dopo del rospo in pancia”. È impossibile leggendo non provare un senso di disgusto profondo verso il compagno. Se, nel primo capitolo, dedicato alla compagna, si guarda con diffidenza all’accusa di violenza, qua, dopo aver letto la visione dell’uomo, lo si condanna con forza. Ma è lo stesso meccanismo dietro i due movimenti: non lo si assolve o condanna per alcun motivo valido. È soltanto un instinto di pancia. Non ci sono prove. Nessuna. Non ci saranno per tutto il libro. Il compagno, l’unico a poterlo fare, non si fa mai un vero e proprio esame di coscienza su quello che per la ragazza potrebbe essere stata una violenza. Quindi, non assistiamo mai veramente al passato. Ne abbiamo sprazzi, racconti, sappiamo che l’uomo si sentiva solo e infelice a Miden, e quindi aveva iniziato una relazione con una sua studentessa. Ma mai si interroga se quella relazione professore-studentessa per lei fosse stato qualcosa di più cupo e perverso, ovvero una violenza, un suo abuso di potere. Per questo quando noi, leggendo, giudichiamo il compagno lo facciamo mossi soltanto dall’oscillazione della nostra simpatia nei suoi confronti. Condanna e assoluzione non sono moti di giustizia, ma moti di pancia.
Lo stesso vale per la giustizia di Miden: interessata più che alla violenza in sé, al giudizio del compagno come uomo. La società di Miden ha bisogno di un capro espiatorio per poter ripetere e consolidare i propri valori d’uguaglianza, femminismo e giustizia. Il compagno viene caricato di tutti gli aspetti negativi e mostruosi affinché, una volta sacrificato, immolato in modo asettico con l’esilio (a Miden la violenza è bandita), la comunità possa stringersi ancora più strettamente. Per questo in fondo non importa veramente che la violenza sia stata perpetrata. Ciò che conta è l’utilizzo di figure mitiche, se non proprio archetipiche, rimaneggiate in un’ottica di perbenismo borghese: carnefice-Perpetratore e vittima-Subente. Lo stesso processo non va alla ricerca di prove di quello che è successo, ma consiste in una serie di questionari inviati ai conoscenti del compagno affinché sia valutato umanamente, che poi in realtà è soltanto una scusa per caricarne la figura di odio e risentimento. Ovvero, è attraverso quei questionari che si compie la trasfigurazione da uomo a capro espiatorio. Ora, il compagno è pronto per essere immolato.
CHIAMALA COL MIO NOME
L’altro punto di vista di Miden è la compagna. Lei ha raggiunto l’uomo a Miden dopo una vacanza in cui hanno intrapreso una relazione sessuale. Fin da questo dettaglio emerge una sorta di dipendenza della compagna dall’uomo (oltre che una specie di ruffianesimo insito a Miden con lei fatta entrare per compiacere sessualmente l’uomo). La compagna, fin dalle prime pagine, ci appare come una superficie sconosciuta a se stessa. Terrorizzata dal conoscersi e dallo scoprire i suoi reali desideri, i suoi reali pensieri. Volendo ipotizzare il perché, non è difficile immaginare che sia riconducibile all’essere cresciuta in un Paese che vive solo nel trauma del presente, agonizzando un passato nostalgico, incapace di creare un futuro: non a caso è rimasta incinta soltanto una volta lasciato il Paese per Miden. La notizia dello stupro la sconvolge perché la mette di fronte a se stessa, o meglio, alla superficie che impersona. Ne è emblema la freddezza con cui accoglie la ragazza nel primo capitolo, unico momento di confronto fra le due.
Ma non è l’unica ambiguità della compagna. Una volta saputo della violenza subita dalla ragazza, la donna inizia a essere quasi gelosa, se non proprio invidiosa, di lei. La compagna, mentre legge tutte le varie pratiche sessuali del compagno e della ragazza, non si interroga tanto se siano accadute veramente o meno, certo che sono accadute, quanto più del fatto se possano essere indice di violenza: “Sto valutando se una candela accesa infilata nell’ano sia indizio di stupro, avrei dovuto dirle”. D’altronde, sono le stesse pratiche che avrebbe compiuto anche con lei, se solo lei non fosse stata allergica alla cera. Anche in questo caso, proprio come per l’uomo, non ci sta una vera e propria ricerca di verità, di quello che è successo da parte della compagna. Seppur ci si muova in un terreno molto più ambiguo e complesso, fra dubbi e gelosia, anche lei è con la pancia che giudica e si schiera. Ma Raimo è estremamente abile nel mantenersi costantemente in bilico, senza mai giudicare l’azione dei suoi personaggi, limitandosi alla descrizione, alla narrazione, e lasciare che sia il lettore a riflettere. In questo, la trasformazione finale della compagna ne è l’apice: soltanto dopo l’immolazione del compagno al giustizialismo di Miden, può veramente affrontare se stessa, i propri desideri e la propria identità.
Mi si dirà che la mia visione di Miden (città e romanzo), dell’ambiguità del finale e della storia in generale è riconducibile, se non proprio inquinata, al fatto che sono uomo e quindi comunque di parte, ben più facile l’empatia per il compagno. E, per carità, è verissimo: nelle prime pagine quando ancora non era chiara la stratificazione della scrittura di Raimo, ho avuto diversi moti di stizza davanti alla rappresentazione del compagno, insensibile e volgare. Ma è proprio questo il ruolo della letteratura, quella fatta bene, per lo meno: metterci davanti alle nostre idiosincrasie e a ciò che diamo per scontato, fino a chiederci se vogliamo essere veramente così.