Torna alla Scala lo spettacolo inaugurale del 2014 con direzione di Myung-Whun Chung e regia scespiriana di Deborah Warner
Non è mai semplice riprendere una produzione, specie se si tratta di un’inaugurazione di stagione. Ma nel caso del Fidelio andato in scena lunedì sera alla Scala ha funzionato, nonostante il cambio di cantanti e direttore. Fidelio è stato l’ultimo 7 dicembre di Daniel Barenboim, che lasciò la Scala con una lettura sontuosa dell’unica opera di Beethoven, che tendeva un po’ troppo al Tristano. Quanto a Myung-Whun Chung, chiamato a dirigere l’opera fino al 7 luglio, è chiaro fin dall’ouverture – la Leonore n. 3, Barenboim aveva scelto la n. 2 – quanto sia distante la sua visione di questo trionfo dell’amor coniugale, Singspiel di riferimento dell’opera tedesca romantica, che di romantico non ha né la forma né il contenuto.
Anche se il lugubre inizio del secondo atto, con la sua atmosfera del sottosuolo, stimolerà Weber e Wagner a scendere negli antri più infernali mai messi in musica, così come il quartetto di meraviglia del primo atto sarà il modello del quintetto del terzo atto dei Meistersinger. Ma forse ha ragione Charles Rosen a vedere in Fidelio la fine più che l’inizio di una tradizione.
Lo stile comico di tanti passaggi, come il duetto tra Marzelline e Jaquino, l’aria di Rocco che sembra uscita dall’Entführung, il quartetto stesso da vedere con occhi più mozartiani che wagneriani, tutti questi passaggi complicano la lettura di un’opera che sembra mettere insieme generi teatrali diversi e inconciliabili. Per cercare di risolvere queste contraddizioni bisogna cercare in sistemi estetici dimenticati.
Si legge spesso che Beethoven, almeno per la prima versione dell’opera del 1805, avesse in mente l’opéra à sauvetage di Cherubini, come Lodoiska o Les deux journées, la cui partitura pare fosse sulla sua scrivania proprio mentre componeva Fidelio. Oggi sono riferimenti difficili da cogliere perché si tratta di titoli scomparsi, per non dire mai apparsi nei cartelloni dei teatri (a parte la Lodoiska di Muti alla Scala nel 1991, con il geniale allestimento di Ronconi con prospettiva dal sotto al sopra). Questo può forse spiegare le tante accuse di non teatralità subite non solo da Beethoven, ma anche dal povero Schubert, contro cui ci si è accaniti proprio in queste settimane durante le interessantissime repliche di Fierrabras alla Scala, molto ben dirette da Daniel Harding – fino al 30 giugno –, anche se in questo caso il modello è più lo Spontini dell’Agnes von Hohenstaufen (ancora Muti con la Rai nel 1970).
La direzione di Chung sembra ricercare questa prospettiva più neoclassica, con una sonorità concisa e stringata, meno sensuale di quella di Barenboim ma con un equilibrio dalla resa teatralmente molto più efficace. Non perché i tempi siano tanto più rapidi rispetto al 2014, ma per la chiarezza della frase musicale, di cui Chung sa sempre cogliere il contenuto drammatico (che con Barenboim a volte si perdeva), senza però rinunciare alla bellezza del suono, al carattere meditativo e talvolta struggente di scene come il coro dei prigionieri o il duetto della fossa tra Leonore e Rocco.
L’altra ragione per cui questa ripresa di Fidelio è stata così opportuna è che Deborah Warner ha potuto tornare su uno spettacolo che forse nel 2014 non era stato capito del tutto. Come nel suo meraviglioso Billy Budd, la Warner ha la capacità di far avvertire degli impliciti scespiriani in tutto quello che fa. Nel caso di questo Fidelio il riferimento va ai drammi storici, perché non può non venire in mente il suo Riccardo II en travesti in cui, vent’anni prima di Peter Stein, aveva scritturato come protagonista un’attrice – da notare che anche in quel dramma le prigioni non mancano.
Così sull’identità di genere Fidelio-Leonore, centrale nella drammaturgia dell’opera, la Warner lavora con riferimenti altissimi che si traducono in alcuni passaggi memorabili: quando Fidelio indossa tuta da operaio e stivali, punta la pistola a Pizzarro o bacia Marzelline si scorge tutto il caos emotivo trattenuto dal personaggio, che si libera solo durante la sua unica aria, Abscheulicher, wo eilst du hin?, quando finalmente può togliere il cappello per ricordare al pubblico e a se stessa la sua vera identità: l’eroina androgina che lotta contro il cinismo e la grettezza dei tempi.
Buona prova di Ricarda Merbeth che, nonostante un po’ di vibrato nel registro acuto, dà un taglio preciso alla sua Leonore, più vulnerabile che combattiva. In difficoltà invece Stuart Skelton come Florestan. Discreta la coppia comica: Martin Piskorski e Eva Liebau. Di ottimo livello il Rocco di Stephen Milling e il Don Pizzarro di Luca Pisaroni.
Fotografie: credit Brescia / Amisano – Teatro alla Scala