L’opera di Vincenzo Bellini, dalle oscure atmosfere romantiche, approda alla Scala diretta da Riccardo Frizza. Sonia Yoncheva, a sessant’anni di distanza, regge il confronto con la Divina Callas
Ah, questi fantasmi, che infestano pensieri e ricordi di ogni melomane, in certi casi annebbiandone ogni lucidità. Soprattutto alla Scala, primo teatro al mondo dai tempi delle sindromi di Stendhal di inizio Ottocento: un luogo che vive ogni stagione con il prezioso ma insostenibile peso del suo passato.
Non parliamo quando si tratta di belcanto: vedi questo chiacchierato, discusso, anticipatamente stroncato e invece imperdibile Pirata di Bellini andato in scena lo scorso 29 giugno – fino al 19 luglio. Un titolo che solo pochi cantanti dotatissimi e un po’ incoscienti possono sperare di affrontare uscendone indenni nello spirito e forse anche nel fisico, almeno su quel palco.
C’è riuscita la bulgara Sonia Yoncheva, che ha reso omaggio al passato facendo venire a tutti il sospetto che un presente esista ancora: non sia mai che un giorno si parli di futuro, ora che il belcanto, anche a Milano, “Si può fare!” – da leggere come in Frankenstein Junior. Le vedove e i vedovi della Divina Maria – soprattutto vedove –, che dal suo sacro angolo di proscenio ridiede vita nel ’58 – sì, l’opera manca da sessant’anni – a un mondo fatto di cantabili e scene di pazzia, canto spianato e drammaticissime agilità, non hanno potuto scagliarsi contro la nuova diva dopo la cabaletta finale in cui, avvolta in un immenso sudario nero, ha intonato con il fuoco sacro della grande artista ognuno degli ampi intervalli che evocano l’orrore delle tenebre in cui Imogene precipita alla fine dell’opera. Si sono rifatti, a torto, su Nicola Alaimo, sul maestro Frizza e sui responsabili dell’allestimento.
Prima opera romantica, di oscure atmosfere byroniane, Il pirata è un capolavoro dall’inizio alla fine. Terzo lavoro del venticinquenne Bellini che finalmente, proprio alla Scala, poteva ritenersi emancipato dalle convenzioni degli imitatori delle Semiramidi, scommettendo su passioni sconosciute nei teatri, allora dominati dall’astratto straniamento rossiniano. L’amore impossibile tra Gualtiero e Imogene, la gelosia del marito di lei, le disperate scorribande di lui, e ancora la tensione emotiva accumulata scena dopo scena, con il principio di realtà che alla fine piomba sui protagonisti, come “la barbara scure” che strappa a Imogene il suo corsaro: tutto ciò è montato da Bellini con un’enfasi drammatica che ancora oggi impressiona.
Il timbro psicologico della musica, con quella malinconica delicatezza sentimentale, può scavare nell’indeterminato quanto una sinfonia di Schumann. Il teatro di Bellini, “umano, troppo umano”, è fatto anche di tratti appassionati, per confondere e sovvertire i sensi raddoppiando, a volte triplicando la realtà della scena. Sarà vero, come ha scritto Mila, che il Romanticismo italiano non sa perdersi nella natura, ma certo sa perdersi nelle oscurità di un inconscio prefreudiano: un luogo non reale, non razionale, in cui la verità della scena si rinchiude nell’interiorità. Anche grazie alla struttura delle arie, così libera, come ad esempio “Lo sognai ferito, esangue”, in cui Imogene racconta, guarda caso, proprio un sogno.
Ogni effetto e affetto sembra chiarirsi grazie agli interpreti. Su tutti la Yoncheva, voce di un realismo commovente niente affatto eterea, anzi concreta, che spicca fin dalla sortita accorciando da subito le distanze emotive, in attesa di un finale costruito su quel canto «che strettissimamente esprima la parola», diceva Bellini. Il solido Piero Pretti, pur partendo con qualche incertezza nella cavatina “Nel furor delle tempeste”, migliora nel corso dell’opera per chiudere con una toccante “Tu vedrai la sventurata”. Un po’ piatta ma corretta l’interpretazione di Nicola Alaimo, il marito di Imogene, Ernesto, personaggio tratteggiato anche sulla carta in modo più convenzionale. Riccardo Frizza dirige con sicurezza, con tempi comodi almeno fino al terzetto del primo atto, poi stringe sul doloroso seguito, facendo capire dalla buca, grazie ai cori e ai pezzi d’insieme, come mai Bellini sia diventato Bellini proprio con quest’opera.
Con buona volontà Emilio Sagi presenta uno spettacolo dignitoso, con scene essenziali di Daniel Bianco e bei costumi di Pepa Ojanguren: molti specchi e un elegante bianco e nero. Ma si tratta di una regia esile che non cerca di risolvere l’opera, di ripensarla a sessant’anni dalla Callas. Fa solo da cornice – da bella cornice: non è poco – all’interpretazione dei cantanti, puntando su un bell’effetto durante la pazzia di Imogene. Forse il limite di questa produzione, e curiosamente anche il suo merito, è di suggerire che per fare Bellini non basta una compagnia di livello. Forse non basta nemmeno la Yoncheva, come se il belcanto non potesse più giocarsi sulla tenuta di una primadonna, perché queste opere una drammaturgia ce l’hanno. Anzi è proprio questa che deve essere ancora riscoperta.
Fotografie © Brescia/Amisano – Teatro alla Scala