Il Flauto magico, l’Elisir d’amore, La Traviata in tre allestimenti intriganti di scena all’Opera Festival più affascinante dell’estate
Tra le speranze dell’opera estiva, Macerata è forse la più verde, con tanto di hashtag (#verdesperanza) a siglare l’inaugurazione del festival lo scorso fine-settimana, anche apertura di un triennio diretto da Barbara Minghetti che promette di affascinare, intrigare, far discutere, innervosire, di certo appassionare non solo i fanatici, ma anche qualche sano di mente che vi prenderà parte. Titoli di richiamo ma nemmeno troppo: Il flauto magico in italiano, L’elisir d’amore, La traviata, tutti con regie pensate e pensanti, che chiedono agli spettatori qualcosa di più di furtive lacrime versate prima di rientrare negli eleganti agriturismi sui colli nei dintorni.
Si inizia con Graham Vick, che ha messo in scena l’ultimo Singspiel di Mozart prendendosela con i poteri forti di oggi: finanza, altare e iPhone. Chi tace è complice, ci fa capire subito il regista inglese, che ha coinvolto quasi cento comparse, maceratesi e non, per commentare l’azione, incitare, istigare o scoraggiare i personaggi. E dato che tutti dobbiamo capire cosa ci si dice sul palco, l’italiano è d’obbligo, tanto che è stata recuperata la traduzione del libretto di Schikaneder di Fedele d’Amico, «poetica», a sua volta derivata da quella settecentesca di Giovanni De Gamerra, «ritmica».
Certo non c’è magia in questo allestimento, ma non è richiesta. Ci si scordi la fiaba, l’esotismo, il misticismo della sfida iniziatica di Tamino: nel gioco teatrale di Vick manca quell’atmosfera infantile, un po’ natalizia che si vede quasi sempre nelle Zauberflöte tradizionali e non, quel raccoglimento di cui parlava anche Strehler, con «serpenti fatti di corda, legno, tela e dalla luce delle candele». Qui il serpente è una ruspa – che ha fatto arrabbiare gente che di pensare non ha tanta voglia, né a teatro né fuori –, transenne e agenti in tenuta antisommossa tengono a bada una folla di indignados in protesta di fronte ai luoghi del potere – i tre palazzi dello scenografo Stuart Nunn –, che nel finale crollano come tessere del domino, coup de théâtre per annunciare un mondo nuovo di fratellanza tra gli uomini.
Ci sono volute sei settimane di prove, ma Vick è riuscito nell’impresa di far recitare ai cantanti minuti e minuti di dialoghi in modo sempre credibile, o quasi: questo Flauto magico fa capire quanto le opere in traduzione possano funzionare persino meglio che in originale, specie se devono far ridere. Il migliore in scena è il Papageno di Guido Loconsolo, che da bravo uccellatore consegna il pollo del McDonald concedendosi una canna quando proprio non ne può più; ottima prova di Valentina Mastrangelo, Pamina da salvare dalla corruzione materna, e delle tre dame – Lucrezia Drei, Eleonora Cilli, Adriana Di Paola –; corretti il Tamino di Giovanni Sala e la Regina della Notte di Tetiana Zhuravel; più in difficoltà, specialmente nei dialoghi, Antonio Di Matteo come Sarastro; evidenti problemi di intonazione per i tre geni Ilenia Silvestrelli, Caterina Piergiacomi e Emanuele Saltari.
Anche in questo caso Vick punta al rito collettivo, un po’ come nello Stiffelio dello scorso Festival Verdi di Parma, in cui davvero si abbattevano tutte le possibili pareti teatrali mescolando spettatori, comparse, coristi e cantanti per un incontro inedito tra chi l’opera la fa e chi la va a sentire. Solo che a volte nemmeno le intenzioni più profonde e la tecnica più consapevole bastano per coinvolgere il pubblico in senso teatrale, sociale e politico. Così lo spettacolo, pur ricco di soluzioni brillanti, lascia lo spettatore con troppi dettagli confusi, specialmente nella seconda parte, quando non generici – e un filo ideologici. Non ha aiutato a far tornare i conti la direzione di Daniel Cohen, più impegnato a curare particolari orchestrali di cui nessuno si sarà accorto oltre le prime file, che ad aiutare i cantanti già impegnati in una regia complessa.
Quanto all’Elisir d’amore balneare di Damiano Michieletto, già visto in molte città d’Europa (in Italia solo a Palermo, quindi per fortuna c’è il Mof a recuperarlo), sembra fatto apposta per lo Sferisterio il cui palco, di solito temutissimo per le dimensioni da registi con l’horror vacui, aiuta in questo caso a dare forma allo spiaggione attrezzato su cui si svolgono gli amori e disamori donizettiani. A sinistra il chiosco di Adina, e poi sdraio, lettini, docce e tutto il colore, anzi la tintarella locale di un’estate italiana che si rispetti – le scene sono di Paolo Fantin. Nemorino è il bagnino un po’ sfigato che sogna la più desiderata della spiaggia, Adina, troppo impegnata a farsi corteggiare dal bel marinaio Belcore. Gli aiutini di Dulcamara risolveranno tutti i piccoli, grandi problemi di cuore dei protagonisti.
Ogni cosa funziona in questo spettacolo, leggero e divertente tranne che per qualche ombra nel finale del primo atto, quando Nemorino viene malmenato e umiliato. Ed è proprio in questi passaggi che l’interpretazione di John Osborn diventa struggente, perché nel suo “Adina credimi” sa comunicare il confine tra la mitezza e l’oppressione, tra la speranza e la disillusione. Credibile anche l’Adina di Mariangela Sicilia, pur con qualche problema di intonazione nei sovracuti, così come il Belcore di Iurii Samoliov, la Giannetta di Francesca Benitez e l’esuberante, simpaticissimo e un po’ inquietante Dulcamara di Alex Esposito. Direzione sicura di Francesco Lanzillotta, che segue con molta coerenza il taglio vivace dello spettacolo. Peccato solo che il coro fatichi a volte a stargli dietro.
Ultimo capitolo La traviata “degli specchi”, un classico dal 1992 – non solo a Macerata – per la soluzione riflettente ventiquattro metri per dieci di Josef Svoboda. Le scene raddoppiano nello specchio inclinato di quarantacinque gradi sul palco, finché nel finale, al momento dell’anapesto che annuncia l’inevitabile, si raddrizza per far piombare il pubblico dal sogno della scena alla realtà della vita, anzi della morte musicale di Violetta. La regia, oggi come allora, è di Henning Brockhaus, che non sembra essersi preoccupato troppo di aggiornarla, anche se molti dettagli fanno pensare a una lettura dell’opera non così convenzionale: in particolare alcune esagerazioni dei personaggi (vedi Alfredo e Annina), le citazioni di Visconti, Violetta che sviene prima di “Parigi, o cara” tanto che poi nessuno ci crederà nemmeno per un attimo, fanno pensare che il regista abbia in mente una meta-Traviata di cui si diventa doppiamente testimoni.
Salome Jicia non fa bene il primo atto, ma già in “Ah, fors’è lui” si intravvede il personaggio di cui nei due atti successivi saprà esprimere ogni gioia e dolore. Ottima prova di Ivan Ayon Rivas, che interpreta un Alfredo reattivo al limite dell’aggressività. Impeccabile il Germont di Luca Salsi. Keri-Lynn Wilson dirige al suo meglio correttamente, al suo peggio tendendo alla banda.