Il Festival della Valle d’Itria arriva alla sua 44° edizione rivelandosi come al solito un miracolo di idee e di entusiasmo
Malgrado gli sciagurati tagli appena annunciati (meno 34% per tre anni a partire da questo), il Festival della Valle d’Itria si rivela come al solito un miracolo di idee e di entusiasmo, con il pubblico che risponde riempiendo ogni posto a disposizione per titoli che normalmente lascerebbero vuota qualsiasi sala. L’Italia sarà anche il Paese del melodramma, ma troppo spesso lo è a dispetto di se stessa, senz’altro di chi la governa, che potrebbe e dovrebbe occuparsi di festival storici e di «assoluto prestigio» – per citare la formula del Mibact, usata non sempre a proposito – come quello di Martina Franca, costretto a resistere soprattutto grazie al sacro fuoco dell’ostinazione.
Due delle opere presentate in quest’edizione, Il trionfo dell’onore di Alessandro Scarlatti (unico titolo comico del compositore), e il Rinaldo «impasticciato» di Händel, Leonardo Leo e altri (il puzzle della partitura, andata in scena sette anni dopo la prima londinese, è stato pazientemente ricostruito dal musicologo-enigmista Giovanni Andrea Sechi), hanno entrambe avuto prima esecuzione a Napoli nel 1718. Esempi perfetti delle differenti prassi operistiche di inizio settecento: da una parte un assemblaggio di numeri originali e riscritti, oltre che di “arie di baule” dei cantanti (i loro cavalli di battaglia tratti da altre opere, in questo caso di Gasparini, Orlandini, Porta, Sarro e Vivaldi); dall’altra un innesto musicale sulla commedia dialettale che dà origine alla commedia per musica, anzi alla commedeja pe’ mmuseca, forma di opera comica più articolata dell’intermezzo che a Napoli trionferà solo in un secondo momento.
Il festival ha deciso di affidare la regia degli spettacoli a giovani teatranti di talento: per Rinaldo Giorgio Sangati, assistente di Ronconi che, tra le altre cose, ha già diretto un ottimo Goldoni dark prodotto dal Piccolo (Le donne gelose, 2015), per Il trionfo la compagnia milanese Eco di Fondo, che guarda a temi di attualità sempre con mano poetica e sensibile. L’idea funziona perché permette un dialogo tra la prosa e il teatro musicale nel caso di titoli che spesso non sono mai stati presentati al pubblico – non nel caso del Trionfo, che in effetti ha già una sua tradizione – e che quindi hanno bisogno di una rilettura che ne aggiorni le potenzialità drammaturgiche.
In particolare affascina la messinscena dell’opera di Scarlatti, una specie di Don Giovanni (la fonte è sempre Tirso de Molina) con aggiunta di commedia dell’arte, in cui tra le coppie sono ammessi tutti i giochi possibili, che in musica assumono ogni sfumatura tra il buffo vero e proprio e il serio tendente al tragico. Gli Eco di Fondo raccontano la vicenda in flashback, attraverso gli occhi di un bambino che ricostruisce liberamente onori e disonori del suo avo libertino. Il paesino immaginato dallo scenografo Stefano Zullo, all’interno del difficile spazio della Masseria Palesi, non è solo funzionale, ma si adatta all’atmosfera sognante cercata – e trovata – dai tre registi Giacomo Ferraù, Libero Stelluti e Giulia Viana: bozzettismo di alta qualità, con un taglio espressivo che trova le sue conferme nella musica di Scarlatti.
Bravissimi gli allievi dell’Accademia di Belcanto “Rodolfo Celletti”, in particolare il Riccardo en travesti di Rachel Jane Birthisel, l’intensa Leonora di Erica Cortese e la Doralice di Federica Livi. Esilaranti il Flaminio di Francesco Castoro e l’ostessa Cornelia, ancora en travesti, di Nico Franchini. Completano bene il cast Patrizio La Placa e Suzana Nadejede. Magnifica prova del controtenore Raffaele Pe, Erminio, la cui capacità interpretativa attraversa le difficoltà della parte sempre con sentimento, oltre che con grande facilità nei passaggi di bravura. Jacopo Raffaele dirige l’Ensemble barocco entrando nello spirito dell’allestimento e trovando le ragioni musicali di un’opera che inaugura un genere che culminerà nel Così fan tutte.
Quanto al Rinaldo, non è sbagliata l’idea di Sangati di traslare il contesto barocco, la “maraviglia” del canto e dei suoi effetti, alla scena pop-rock anni ottanta, con la battaglia per liberare Gerusalemme trasformata in un metaforico scontro per il successo. In scena, da una parte Freddie Mercury (Rinaldo), Elton John (Goffredo), David Bowie (Eustazio), Madonna (Almirena), dall’altra una Cher stregata dal barocco (Armida) e Gene Simmons dei Kiss (Argante). Il problema è che per fare serata non basta un’idea con relativi costumi – belli, di Gianluca Sbicca –, specie quando le ore di musica sono più di quattro (di cui solo un terzo effettivamente di Händel), oltre al fatto che sembra sia stato ignorato l’aspetto della contaminazione, la giustapposizione dei diversi autori, e di conseguenza delle diverse logiche non solo musicali ma teatrali. Quindi di regia vera e propria non si è visto granché, a parte qualcosa negli intermezzi dei due servi, Lesbina e Nesso – Valentina Cardinali e Simone Tangolo –, parti comiche aggiunte per la versione napoletana.
Accurata esecuzione di Fabio Luisi alla guida della Scintilla, che invece i diversi stili li individua tutti con relative conseguenze espressive, a conferma della curiosità onnivora di un direttore che sa intrigare il suo pubblico cogliendo tutte le opportunità offerte da questa partitura ricostruita – da notare che in poco più di tre mesi Luisi ha affrontato, oltre a questo, altri due titoli rari come Francesca da Rimini e Cardillac. Esemplare per rigore e rifinitura vocale il Rinaldo di Teresa Iervolino che, grazie ai desideri di grandezza del castrato Nicolini, si appropria di “Lascia ch’io pianga” (qui “Lascia ch’io resti”) e trionfa in “Or la tromba”. L’unica che però sembra essere entrata nell’idea dello spettacolo è Carmela Remigio, la cui Cher-Armida, dall’interpretazione impeccabile, sembra davvero uscita da un videoclip anni ottanta. Modesta prova di Francisco Fernàndez-Rueda, Goffredo, corrette invece l’Almirena di Loriana Castellano e l’Argante di Francesca Ascioti.
Merita infine attenzione la serata rossiniana e sciortiniana, Gatta canta, gatto danza, che di gattini musicali ha deliziato il pubblico della Valle d’Itria con quattro date, alternando in programma pagine del centocinquanta volte compianto Rossini e La gattomachia di Orazio Sciortino, il quale ha anche diretto la sua favola musicale per violino e archi. La gattomachia è quasi un concerto per violino: bravissimo il solista Riccardo Zamuner perché – che si sappia – Sciortino da suonare è difficile, mentre la voce narrante di Mauro Lamantia ha chiarito al pubblico l’intricatissima vicenda tratta da Lope de Vega, in pratica “le gatte, i cavalier, l’arme, gli amori”. Colpisce come a partire dall’omogeneità timbrica degli archi Sciortino abbia saputo scandagliare tutte le loro possibilità sonore, riuscendo nell’impresa di connettere con coerenza un materiale estremamente vario. Chiude la serata il folgorante viaggio in un tempo che si credeva perduto del baritono Domenico Colaianni, custode di esilaranti “caccole” rossiniane.
Immagine di copertina: FestivalValleIdItria2018, Rinaldo. Fotografia © Paolo Conserva