Dopo le ottime prove di “Father and Son” e “Little Sister”, il regista di Tokyo dà il meglio di sè con il film che ha vinto l’ultima Palma d’oro, e con pieno merito. Se tanto cinema di oggi racconta famiglie disfunzionali, lui si fa ammirare con la disperata commedia di una non-famiglia funzionalissima, nei rapporti reciproci e nelle prove d’affetto. Che vive, si, in un miserabile quartiere, sopravvivendo tra mezzi lavori, furti e reati di vario tipo, ma non dimentica mai di cercare la felicità per chi ne fa parte
È in una sera d’inverno che facciamo la conoscenza della complicata “tribù” Shibata, protagonista di Un affare di famiglia, il nuovo film di Hirokazu Kore-eda, meritatissima Palma d’oro all’ultimo festival di Cannes. Una famiglia che di certo non nuota nell’oro: il padre lavora saltuariamente in un cantiere edile, la madre stira in una lavanderia industriale, la nipote lavora in un peep-show, la nonna ricama e cucina, e con la sua pensione da un indispensabile contributo al magro bilancio famigliare. C’è anche un ragazzino, Shota, che proprio nella prima scena del film vediamo uscire da un supermercato con lo zaino pieno di merce rubata, sotto la supervisione del padre che gli sta pazientemente insegnando i trucchi del “mestiere”.
Proprio quella sera i due, tornando verso casa, vedono la piccola Juri, cinque anni appena, confinata su un balcone, magra e piena di lividi: se la portano a casa, come fosse un cucciolo abbandonato, con l’idea di restituirla ai genitori dopo poche ore, giusto il tempo di rifocillarla e consolarla. Invece, la bambina resterà con loro a lungo, anche perché quei disgraziati di sua madre e suo padre non si prendono nemmeno il disturbo di denunciarne la scomparsa.
Per quasi due ore, lo spettatore si trova così a condividere gli spazi minuscoli e miserabili della casa dove vive la famiglia Shibata, scoprendo una vita quotidiana intessuta di fatica e non pochi stenti, espedienti illegali e discutibili stratagemmi di sopravvivenza, ma soprattutto tanto affetto, un calore avvolgente, una magnifica capacità di prendersi cura gli uni degli altri. Che da quelle parti ci sia qualcosa di strano lo scopriamo abbastanza in fretta, ma solo verso la fine del film verranno svelati tutti i segreti e le bugie (forse a fin di bene) su cui questo bizzarro gruppo di persone ha fondato la scelta di vivere sotto uno stesso tetto in barba a qualunque legge e tradizione.
Ormai da anni impazza il termine “disfunzionale”, usato per indicare famiglie variamente infelici, malriuscite e pericolose, per il benessere dei singoli componenti e a volte dell’intera comunità. Quella descritta da Kore-eda, che non è una vera famiglia, fondata su legami di sangue e contratti matrimoniali, appare invece perfettamente funzionale, capace di offrire protezione e sostegno a tutti i suoi membri, rispondendo nel modo migliore alle loro necessità: al bisogno degli adulti di essere madri e padri, dei bambini di essere figli, dei vecchi di non morire soli. In una società disintegrata e violenta – gelida, d’estate come d’inverno – la non-famiglia Shibata è un’oasi di calore e affettività condivisa, un piccolo mondo imperfetto e resiliente, non esente da paure, errori e mancanze, eppure così inesauribilmente vitale da fare quasi invidia.
Non è la prima volta che Kore-eda mette in scena la famiglia, dipingendo con grazia, delicatezza e straordinaria precisione trame complesse di rapporti spesso conflittuali, ma sempre profondamente significativi. Rispetto ad alcuni pur molto pregevoli film precedenti – pensiamo in particolare a Father and son e a Little Sister – quest’ultimo Un affare di famiglia appare dotato di una forza emotiva inedita, di una capacità fuori dal comune di gridare mai alzando la voce, di raccontare una storia terribilmente drammatica senza mai ricorrere al sensazionalismo. Rimanendo anzi su un registro il più possibile pacato, e tenendo spesso la macchina da presa quasi del tutto immobile, e lavorando di sottrazione.
È, questo, un tipo di sguardo che nel cinema giapponese vanta una lunga tradizione, a partire dall’incommensurabile Yasujirô Ozu di Viaggio a Tokyo, un film del 1953 capace di dire sulla famiglia (non solo nipponica) qualcosa di semplicemente definitivo. Un cinema che predilige il controllo e il rigore, quello di Kore-eda, ma capace di prendersi dei rischi, coniugando lucidità ed emozione, senza paura di lasciarsi andare alla commozione. Alla ricerca di una verità dolorosa ma forse liberatoria. Come se proprio questa volta il regista avesse deciso di dire fino in fondo che cosa pensa del suo paese, della violenza che permea una società raggelata e profondamente infelice, chiusa in un formalismo ipocrita, dominata da feroci meccanismi di esclusione fondati sugli incolmabili abissi che dividono le classi sociali.
Cinema inevitabilmente pessimista, ma non disperato, perché capace di inseguire e proteggere l’idea di un’umanità libera nonostante tutto, capace di ritrovare sé stessa in fondo a un vicolo, negli interstizi di un mondo durissimo eppure poroso, nella scelta di essere figli (e padri e madri e nonni) per libero arbitrio e non per necessità.
Un affare di famiglia, di Hirokazu Kore-eda, con Lily Franky, Sakura Andô, Mayu Matsuoka, Kirin Kiki, Jyo Kairi, Miyu Sasaki.