Il capolavoro di Elsa Morante, amato e divorato a 20 anni e ora ripreso in mano, anzi riascoltato, si mostra per quello che è: il minuzioso e disperato affresco dello scontro della grande storia con quella dei piccoli che ne vengono inesorabilmente schiacciati. Ma, alla fine, la Storia siamo noi e non possiamo arrenderci e smettere di sperare
Aprile 1974. Dunque avevo 23 anni, mi mancava solo la tesi per la laurea in Scienze politiche (indirizzo storico-sociologico) e cominciavo a lavorare come giornalista collaborando a Panorama. La Storia. Sottolitolo: “Uno scandalo che dura da diecimila anni”. Di Elsa Morante. Lire 2.000.
Lo lessi tutto d’un fiato, appassionandomi alle vicende della povera Iduzza e affezionandomi sempre di più al bastardello Useppe. Non piansi alle ultime pagine, si è più duri a vent’anni, o almeno io lo ero. Ma amai quel romanzo moltissimo, senza chiedermi però, davvero, perché. Si divorano i romanzi e la vita, a vent’anni, pronte a innamorarsi del prossimo ragazzo, del prossimo scrittore, della prossima rivoluzione, accantonando frettolosamente pagine e volti.
Poi ti ritrovi quarant’anni dopo a dover partire per la solita trasferta di mille chilometri fra Milano e la Puglia e decidi di provare ad alleggerire le nove ore di auto con un audio libro. E l’occhio ti cade su La Storia letta da Iaia Forte. Tre cd, 23 ore di ascolto.
In realtà (“invero“ scriverebbe Morante) è finita che all’andata ho ascoltato un altro cd (una strepitosa lettura con nuova traduzione dell’Odissea) e il ritorno l’ho fatto in compagnia. Quindi ho cominciato La Storia in tempi diversi, nei percorsi quotidiani fra casa e il mare, il mare e il supermercato, il parcheggio e il benzinaio, Ostuni e Martina Franca, Ceglie e Locorotondo. E ho continuato fra Milano e la Liguria, la Liguria e Milano. Insomma tutte le volte che ero da sola in macchina avviavo il cd e rileggevo, e mentre rileggevo (perché non è stato un semplice ascolto, ma un’autentica, profonda rilettura) assaporavo la precisione del linguaggio, la straordinaria caratterizzazione dei personaggi, la profondità dei loro pensieri, da quelli più semplici di Iduzza a quelli contorti di Davide Segre a quelli poetici di Useppe (meravigliosi i canti degli uccelletti cui nella sua mente attribuisce rime e versi, o le sue stesse poesie).
E mi figuravo Elsa Morante, questa donna così talentuosa e così difficile (ne ho letto una specie di biografia nella biografia – di Natalia Ginzburg – in La corsara di Sandra Petrignani) alle prese con questo affresco magnifico e terribile di un’umanità dolente e vinta, nella sua piccola storia, dalla grande storia. Com’era riuscita a calarsi nei panni della scialba, infantile, tremebonda eppure coraggiosissima Ida, lei donna così forte, addirittura imperiosa? E dove aveva trovato l’ispirazione per quel miracolo di bimbo, piccolo santo in una terra così ostile? Le mani sul volante e la mente attenta a ogni parola, mi chiedevo come fosse riuscita a mettere tutto, ma proprio tutto l’orrore della guerra, della sopraffazione, della fame e insieme la purezza dell’infanzia, la dedizione di una madre, la sete di vita di un adolescente. E ancora: il degrado della povertà, il coraggio incosciente della gioventù, la delusione del dopo.
Ma non la speranza. Mai, per nessuna delle molte vite che si snodano nelle 649 pagine del romanzo (sì, ho davanti agli occhi la copia di quarant’anni fa) è prevista una rinascita. Nemmeno per gli animali. Al contrario, la grande storia si ostina a punire soprattutto chi più ha patito. Useppe muore, Iduzza impazzisce per il dolore, l’altro suo figlio Rino, prima fascista poi valoroso partigiano, schianta vita e ideali in una sorta di cupio dissolvi. E Davide Segre, il ragazzo ebreo scampato ai nazisti, non resiste al senso di colpa di essere sopravvissuto allo sterminio della propria famiglia.
Chiudi l’ultima pagina (ascolti le ultime parole) e non sembra esserci consolazione possibile, perché non è solo quella di ieri la storia narrata da Elsa Morante. Leggi il romanzo e guardi ai migranti rifiutati e vilipesi, ai bambini bombardati, alle donne violate, alle mille persecuzioni che ancora oggi la Storia continua a infliggere. Poi pensi che la Storia siamo noi, e ti senti anche peggio. Ma provi – almeno io provo – a cercare quella luce che Elsa non saputo o voluto vedere (piccoli e grandi atti di resistenza civile, di volontariato, di diverso pensiero) e ti ostini, nonostante tutto, a sperare.