Si fanno sempre più stretti i rapporti dei generi di spettacolo con l’utilizzo di modelli simili. Sono moltissimi i film che arrivano a teatro e generano serial: è il Dio delle illusioni
Che confusione. Che bella confusione. Siamo al cinema o a teatro? O tutti e due? Quando vediamo un film in 3D si abbatte la quarta parete dello schermo (quella che Pirandello aveva scassinato col teatro) e le immagini rimbalzano come su un ideale palcoscenico, come fossimo a teatro (non a caso il top è Pina di Wim Wenders sulla Bausch e la sua grande rivoluzione nella danza).
Quando vediamo il Macbeth di Gassmann, per dirne uno di eroe scespiriano, è come un horror con tanti effetti speciali anche trash, gore, truculenti. E Ronconi usa lo spazio del cinemascope come occhio della sua scenografica verità teatrale scappando da anni via dalle convenzioni e dai luoghi fisici, utilizzando spesso geografie inusuali e stilemi di cinema con montaggi paralleli o evidenti rimandi e citazioni (Il lutto si addice ad Elettra di O’Neill come fosse un Hitchcock con le sue belle musiche di Herrmann).
Il santo inquisitore di Orsini e Dostoevskji rimanda a un vecchio sceneggiato che fa capolino portando in dote nostalgie di serate colte Rai. Scaparro offre addirittura il tre per due: prendi un personaggio, magari della commedia dell’arte o della letteratura, e te lo godi più volte, prima in scena poi sui due schermi, il piccolo e il grande.
Nei cartelloni dei teatri compaiono o ricompaiono plot già assorbiti in altre platee, La scuola (con Orlando come nel film di Luchetti), La parola ai giurati, court movie d’eccellenza, i melò di Tennessee Williams che il cinema ha reso popolari e misteriosi per ragioni di censura sessuale: le pelli di serpenti alla Marlon Brando, gli zoo di vetro, le estati scorse edipiche, cannibalesche e le gatte sui tetti che scottano della Liz, fino ad arrivare alle litigarelle Virginie Woolf di Albee.
Intanto Corrado Tedeschi importa dall’immaginario sentimentale collettivo i sentimenti di un entusiasta innamorato della vita, Francois Truffaut, per farne uno spettacolo sull’Uomo che amava le donne. La grande letteratura viene offerta omaggio, complici le bravure di attori monologanti come Fabrizio Gifuni (Gadda, Pasolini, Camus…), sua moglie Sonia Bergamasco (da Tolstoi a Irène Nemirovski), Cirillo travestito che scende giù da Toledo come aveva scritto negli anni ’70 Patroni Griffi.
Tutto si confonde, ma utilmente, con costanza. Le serie tv, oggi superstar della chiacchiera snob, utilizzano i successi storici come Hannibal the Cannibal, Fargo dei Coen o Gosford Park di Altman, che sta alla base del capolavoro Downton Abbey con cui condivide la paternità letteraria di Julian Fellowes premiato con l’Oscar, per ampliarne l’aristocratica dimensione narrativa. Così Mad men, altro titolo da non perdere, recupera gli stereotipi del cinema americano anni 50 raccontando, tra innumerevoli drink, taxi, attesa di ascensori, portieri umili in livrea, riunioni, slogan, jingle, sempre smoking get in your eyes, la vita agra di un gruppo di pubblicitari che passano con dorato egoismo di marketing dall’America pudica del rapporto Kinsey degli anni 50 agli assassinii storici e ai figli dei fiori ed oltre.
E nel futuro di questa forma espressiva vincente (forse perché è l’infinito e oltre, vedi i feuilleiton di Balzac e Thackeray) ci sono progetti che riguardano Ghost, Terminator, Truman show, Shutter island e Grease perché Papà Goriot e La fiera delle vanità hanno già vissuto come sceneggiati. Nelle serie, che rifiutano la dizione d’autore perché spesso cambiano regista ad ogni puntata (comandano i soggetti), hanno lavorato Scorsese, Lynch (fu il primo con Twin peaks), Soderbergh ed altri ed i Sopranos non hanno niente da invidiare ai Padrini.
Se andate a vedere rutilanti musical, vi accorgerete che il repertorio, a parte la gran fetta dei family show molto artigianali ispirati alle fiabe, è quello dei best seller cinemascopici di un tempo. Si va dal western country 7 spose per 7 fratelli a Dirty dancing (111.729 spettatori in 12 settimane a Milano, urge ripresa) alla Famiglia Addams (altre centomila presenze, a prezzi non modici) fino a un assaggio delle 50 sfumature di grigio in anticipo sull’atteso film il cui trailer è cliccatissimo da sporcaccioni per bene.
E si attendono lietamente per l’Expo titoli evergreen che il cinema ha reso più o meno immortali nella dimensione con urlettini teen ager, da Grease a Frankenstein jr. mentre le suggestioni non più scandalose en travesti si ritrovano puntuali nel rimmel e guepières del Rocky Horror e in Priscilla (ormai spettacolo per liete famiglie trans), musical a mezzo servizio col cinema come il magnifico Cabaret (che viene da Isherwood) e che Saverio Marconi si appresta a mettere in scena per la terza volta o Billy Elliot di cui Massimo Romeo Piparo ha preso i diritti.
Questo del ragazzino che vuol ballare ma la società e la famiglia la considerano una scelta da “finocchio”, quasi una malattia (sono fans dei dibattiti omofobi lombardi, bella presentazione per Expo non c’è che dire) è un magnifico musical già molto visto a Londra e a Broadway ed atteso al varco del “pride” all’italiana.
Perché ancora si tratta di minatori in sciopero e gay: la trasversalità regna sovrana in ogni arte (installazioni, mostre, fotografia), in quelle ufficiali e biennalesche ma soprattutto nel mondo dello spettacolo che fa un po’ il giocoliere tra le sue molte seduzioni arricchite e moltiplicate dai mezzi di diffusione contemporanei.
Ingmar Bergman, per esempio, uno dei pochi che non si è negato alcun piacere d’autore (cinema, teatro, lirica, tv, spot) spesso viene trasferito con successo sui palcoscenici, come nel caso di Sinfonia d’autunno e delle Scene da un matrimonio, rovistando e rilanciando nevrosi freudiane classiche, singole e-o di gruppo.
Visto con una certa distanza, certo cinema serve a identificare subito un clima e un’epoca: vedi Filippo Timi che in Favola (ancora una volta, con sentimento, ripresa in aprile al Parenti) gioca con la femminilità americana anni 50, rimbalzando da Doris Day a Kim Novak, donne che vissero due e più volte, mentre poi con la Sirenetta (Andersen è un pretesto) ha davvero mescolato con genialità un breve squarcio di neo realismo quasi magico in bianco e nero che sembra ereditare i climi particolari di certo cinema anni 60, con tanto di filmaker che in scena riprende ciò che accade, ipotizzando che si possa farne un film e poi chissà.
Foto di Kathryn