Quattro anni dopo la Palma d’oro a “Il regno d’inverno”, il talentoso regista turco Nuri Bilge Ceylan è tornato a Cannes con il suo nuovo, assai interessante “L’albero dei frutti selvatici”, ora in uscita. Che offre lo spaccato di un piccolo, polveroso mondo di provincia, dove tutto sembra dato una volta per tutte, tra la disperazione dei padri e le speranze dei figli. E, sullo sfondo, c’è il Paese che Erdogan traghetta solo in parte, e con molti costi, in una modernità irrisolta, mai davvero capace di liberarsi del passato. Così si sviluppa anche la storia di Sinan (Dogu Demirkol), che appena laureato torna a vivere nel villaggio natio, in Anatolia, con un libro già scritto da pubblicare e molte illusioni sul suo futuro…
Poco più che ventenne, Sinan (Dogu Demirkol) – intorno a cui ruota L’albero dei frutti selvatici di Nuri Bilge Ceylan, passato con molti elogi all’ultimo Festival di Cannes – si è appena laureato, e torna a vivere nel villaggio natio, in Anatolia. Il suo destino sembra già scritto: superare il concorso nazionale per diventare insegnante per iniziare la carriera in qualche sperduto villaggio dell’immenso est turco, in attesa di invecchiare, mettere su famiglia, scoprirsi identico a un padre (Murat Cemcir) poco amato, profondamente disprezzato più ancora che detestato.
Ma Sinan è diverso, o almeno si ritiene tale: ha scritto un libro ed è convinto che basterà pubblicarlo per ridurre in brandelli ogni destino prefissato e conquistare una vita diversa da quella che già occhieggia placida e feroce alla fine della strada. Ma per la pubblicazione occorrono soldi che lui non ha, mentre che suo padre continua a sperperarne accumulando debiti di gioco e sogni falliti. Così l’orizzonte appare già chiuso, a vent’anni o poco più, sarà condannato a girare in tondo sulle strade già percorse da chi è venuto prima di lui, sempre più frustrato, sempre più rabbioso, più drammaticamente impotente. E tutt’intorno c’è la Turchia di Erdogan, un mondo che i ventenni come Sinan non hanno (ancora) contribuito a edificare e che sentono profondamente estraneo, ma dentro il quale forse anche loro non possono fare a meno di scivolare, inesorabilmente.
Il titolo originale dell’ultimo film di Nuri Bilge Ceylan è Ahlat Agaci, che in italiano vuol dire semplicemente “il pero selvatico”. Ed è proprio attorno a questo albero immenso e immoto, solido e indifferente, che si costruisce a spirale un racconto capace poco a poco di farsi labirinto, mettendo in scena la rabbia e l’insipienza, il desiderio di andare e il bisogno di tornare, la voglia di tradire, cambiare, rivoluzionare e la spinta inesorabile a rimanere e conservare. Mentre gli alberi stanno a guardare, come le stelle nel titolo di un famoso libro di Cronin.
Magari per un istante, nella prima mezz’ora di film, ti può capitare di chiederti perché dovrebbe interessarti il destino di questi personaggi sgradevoli e banali, privi di fascino, forse persino di profondità. Ma basta poco per rendersi conto che la mancanza di profondità è solo apparente, perché tutti i personaggi, anche quelli ai quali è riservata una sola scena, si presentano davanti a noi con una tale quantità di sfaccettature da catturare la luce di universi interi. E questo vale per tutti, per la giovane contadina e l’imam, lo scrittore e il politico locale, o l’imprenditore dalle smanie incongruamente intellettuali.
Spesso camminano, i personaggi messi in scena da Ceylan. Camminano e parlano, ripresi in lunghi piani sequenza che danno una paradossale impressione di falso movimento. Lunghi, estenuanti dialoghi che mostrano tutte le drammatiche contraddizioni e le stridenti incompatibilità di un paese in bilico fra passato e futuro, grandi speranze dei figli e quieta disperazione dei padri. E delle madri, vorremmo aggiungere, delle donne, che ancora più degli uomini appaiono totalmente, disperatamente intrappolate in una realtà immobile, in un piccolo polveroso mondo di provincia dove tutto sembra dato una volta per tutte. Perché le stagioni cambiano ma nulla muta davvero, nonostante i tentativi di Sinan di farsi agente provocatore e incrinare la quieta ripetizione dell’uguale a suon di domande imbarazzanti e insinuazioni dirompenti. E nonostante il tentativo di suo padre di scavare un pozzo e trovare l’acqua, là dove l’acqua non c’è, non c’è mai stata, in mezzo alle colline aride dell’Anatolia.
Come già nel precedente Il regno d’inverno, Palma d’oro a Cannes nel 2014, i dettagli si accumulano e gli strati di narrazione e di senso riservano continue sorprese, mentre i personaggi si fanno persone attraendoci nel loro mondo anche e soprattutto quando ci respingono. Ha un andamento quasi ipnotico il cinema di Ceylan, un passo lento e cadenzato che ci cattura (quasi) nostro malgrado: è avvolgente e al tempo stesso urticante, a tratti persino esasperante, sempre penetrante, implacabile, lucido. Più utile di tanti articoli di cronaca per cercar di capire qualcosa di ciò che sta accadendo nella Turchia di Erdogan. E forse non solo lì.
L’albero dei frutti selvatici, di Nuri Bilge Ceylan, con Dogu Demirkol, Murat Cemcir, Bennu Yildirimlar, Hazar Ergüçlü, Serkan Keskin