Non tutto, ma molto della miglior produzione documentaria internazionale da vedere in questo periodo: migrazioni, conflitti, ambiente, sistema industriale ma anche il nostro ’68
Il mondo del cinema documentario internazionale, o “del reale” come dicono i francesi, produce con sempre maggiore frequenza film di qualità che arrivano finalmente anche nei cinema italiani: magari per qualche giorno soltanto come il ritratto di Papa Francesco firmato da Wim Wenders e il Michelangelo infinito di Emanuele Imbucci, in questi giorni nelle sale, che comunque si affacciano così anche oltre gli schermi tv, pc e tablet che sono loro più consueti. Ieri sera a Ferrara Mondovisioni – I documentari di Internazionale, all’interno del Festival promosso dal settimanale che continua fino al 7 ottobre, ha portato in anteprima italiana Recruiting For Jihad dal documentarista scandinavo Ulrik Imtiaz Rolfsen e dal giornalista Adel Khan Farook, che racconta le attività di un piccolo, agguerrito network di fondamentalisti islamici sparsi tra Norvegia, Svezia, Danimarca, Inghilterra e questo inizio di stagione offre molte, davvero variegate, proposte di attualità che vanno dai temi umanitari a quelli economico-ecologici-. Ecco qualche esempio, che dovrete cercare, se vi interessano, spulciando in profondità la programmazione, perché magari passano un solo giorno in un solo orario nelle sale più attente a ciò che accade nel mondo. Il vostro sforzo verrà ripagato da più di una informazione e suggestione non banali e di non facile reperimento.
IUVENTA – È già in circolazione il resoconto di un anno di attività umanitaria della nave Iuventa, (sul sito anche le uscite in varie città) che, dal luglio 2016 all’agosto successivo nel Mediterraneo, con altre imbarcazioni più note alle cronache come l’Aquarius, tuttora presente, ha salvato un gran numero (nel suo caso circa 15mila) di migranti, molti dei quali bambini, donne (spesso incinte), anziani e malati. L’ha diretto il 34enne romano Michele Cinque, autore eclettico che ha già al suo attivo reportage sul mondo del lavoro e sulla musica (Bob Marley, Louis Armstrong ma anche Roy Paci), il quale è salito sull’imbarcazione da 250 posti (ma spesso superati fino a quasi 500 persone) utilizzata, dopo un crowdfunding da oltre 300mila euro, dalla onlus tedesca Jugend Rettet per il recupero di dispersi soprattutto al largo delle coste libiche. È una parabola, quella che raccontano nel film i capi missione Katrin Schmidt e Sascha Girke e molti altri protagonisti, emblematica del drastico cambio di atteggiamento delle autorità italiane ed europee in questi ultimi due anni sul tema immigrazione: i paesi della zona, inizialmente e per parecchi anni disposti a collaborare e tutto sommato assecondare questo tipo di attività umanitarie, col peggiorare delle loro condizioni politiche interne e l’affermarsi di partiti e a volte governi dichiaratamente sovranisti e razzisti hanno iniziato a contrastarle fino a renderle impossibili. In questo caso il 2 agosto 2017 Iuventa entra nel porto di Lampedusa per controlli di routine, ma viene in realtà posta sotto sequestro preventivo dalla procura di Trapani per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Nel film assistiamo all’intera storia, dall’idea iniziale alla realizzazione del progetto, alla prima missione, al blocco finale, in un’altalena di entusiasmi e successi ma anche drammi (due morti a bordo, migranti che vomitano, ustioni, compressioni degli arti), a dubbi insorgenti nelle discussioni dei volontari in parallelo all’irrigidimento negativo del mondo circostante. Si interroga qualcuno: chi fabbrica questi gommoni? “I cinesi, gli stessi che mandavano migliaia di machete in Ruanda durante il genocidio, perché nessuno più di loro se ne frega degli altri”, risponde sconfortato un militante. Sconvolto dallo choc per i racconti delle prigioni libiche e delle traversate, e per la constatazione che l’Europa prima assiste più che collaborare, e tanto meno finanziare chi vuol evitare le stragi in mare, e poi si dimostra apertamente ostile. Nell’inverno 2016-2017, dopo 7 missioni e 6mila persone salvate, la barca è a Spalato per alcune riparazioni, in attesa della ripresa primaverile degli sbarchi. E in un altro momento del film ci si interroga su cosa accade ai migranti portati a terra: molti restano bloccati nei centri di accoglienza per mesi, senza futuro, e colpiscono le riprese nel cimitero di barconi a Pozzallo e le interviste al Cara di Mineo, il più grande d’Europa. Lì volontari ritrovano vecchi amici, migranti salvati a loro volta pieni di dubbi: “Non affronterei tutto questo un’altra volta, no, soprattutto la Libia. E a un altro suggerirei: stattene a casa, trova altro da fare. Non buttare la tua vita”. A marzo 2017, quando la Iuventa è pronta a ripartire, le onlus sono accusate da pezzi di opinione pubblica europea di collusione con gli scafisti (e contro di loro soffiano sul fuoco politici cinici e giornali in calo di vendite), ma ancora tanti giovani da tutta Europa scelgono di salire a bordo per le missioni. Fino al sequestro. È la chiusura, o quasi, della rotta del Mediterraneo, che come si sa ha visto calare dell’80% gli arrivi in Italia nel 2018, proprio mentre la Lega di Salvini capitalizzava alle elezioni, e ancor più nei mesi successivi, la sua battaglia anti-migranti. Paralizzati e depressi, i militanti di Iuventa tornano in Germania, protestano nelle grandi città, raccogliendo anche molti consensi: ma, per ora, “Free Iuventa” è rimasta un sogno.
ORA E SEMPRE RIPRENDIAMOCI LA VITA – Applaudito all’ultimo Festival di Locarno, esce il film storico e di riflessione, basato in grandissima parte su materiali d’epoca, Ora e sempre riprendiamoci la vita, il nuovo film di Silvano Agosti, autore, scrittore, montatore, che qui racconta, 50 anni dopo, ampiamente e affettuosamente, il ’68 e poi il decennio ’68-’78 anche con qualche appendice storico-politica successiva. In questi dieci anni, che hanno davvero sconvolto il mondo (certamente quello italiano, ma non solo) ha potuto esprimersi e agire un movimento mondiale di idee, parole, corpi, lotte, conquiste sociali. Affrontato dal potere statale ed economico con contraccolpi violenti (la stagione delle stragi), e poi proseguito in rivoli diversi, come le lotte di massa per grandi obiettivi socioeconomici e diritti individuali e collettivi, ma anche il terrorismo. Anni in cui Agosti ha fatto da testimone partecipe e interessato con la sua cinepresa, il suo sguardo particolare e presente, la sua capacità di scrivere e raccontare, mostrato nella sua carriera in innumerevoli sceneggiature di valore, da Matti da slegare a La macchina cinema. E anche di fare scuola. Sulle musiche di Nicola Piovani scorre un cast eccezionale di testimoni e intervistati, dai leader di allora come Mario Capanna, Oreste Scalzone, Franco Piperno, a un grande sindacalista come Bruno Trentin; dai protagonisti dell’immaginario, come Bernardo Bertolucci o Alberto Grifi, a Dario Fo e Franca Rame, da un architetto visionario, Massimiliano Fuksas, a un musicista, Paolo Pietrangeli. E ancora dallo scrittore e militante partigiano Nuto Revelli al filosofo Emanuele Severino, al militante anarchico Pietro Valpreda, emblema del tempo come capro espiatorio, arrestato e accusato per la strage di Piazza Fontana.
THE MILK SYSTEM – Il 51enne bolzanino Andreas Pichler (autore nel 2012 del premiato e incisivo Teorema Venezia, sul marketing del turismo) è stato premiato all’ultimo festival Cinemambiente, per The Milk System ( su Movieday date e materiali) documentatissimo reportage che parte da una tesi, diffusa in tutto il mondo, e di recente abbracciata dalla Cina in modo particolarmente vasto e acritico: il latte è sempre e comunque sinonimo di salute e benessere, un alimento naturale e ricco di fattori nutrienti, il che lo rende un prodotto ideale per il mercato. Per i grandi ma soprattutto per i piccoli. Ma se forse il latte fa così bene (un consumo eccessivo smentisce comunque questa idea), altrettanto non si può dire faccia ai produttori stessi, soprattutto i più piccoli, ma anche a gran parte dei cittadini di molti paesi. Soprattutto perché il sistema produttivo mondiale, ormai nelle mani di grandi corporation che lo distribuiscono e lo rielaborano nelle forme più varie (latticini, yogurt, etc), è manovrato da politici, lobbisti, venditori di prodotti ONG e scienziati, certo non tutti scientificamente super partes, e soprattutto da sfrenati propagandisti che imperversano su qualsiasi media, dall’Africa alla Cina, dai mega-schermi tv al più piccolo manifesto stradale.
Insomma ciò che un tempo era il sinonimo di natura innocente, si è trasformato oggi in una merce capace di fatturare cifre da capogiro, i cui produttori tengono in scarsissimo conto fattori come la sostenibilità o il rispetto dei metodi di produzione, più o meno tradizionali. Le domande sono molte e di peso: chi arricchisce, e come, il sistema latte: e a spese di chi? Questo sistema ha un futuro? Ed esistono delle alternative? Per esempio, oggi un produttore che fa 20mila litri di latte al giorno ne produce 70mila di liquame, che avvelena aria, terra e acqua, anche perché ci sono da smaltire gli effetti del ciclo di ammoniaca e azoto che viene dalla soia ogm di cui sempre più si nutrono le mucche. E il fiero pasto di animali che l’erba di pascolo spesso non la vedono mai in vita loro viene dal Sudamerica, dove per coltivarlo intensivamente e produrlo per i mercati del primo mondo vengono disboscate intere foreste. Con esiti a loro volta pessimi per l’ecosistema, gli animali e gli abitanti. Studi seri dicono che la fame del mondo si combatte non producendo sempre più cibo (anche per poi sprecarlo e buttarlo, prima sulle piante, o dopo i pasti), ma producendo più in loco, in piccole strutture indipendenti. Le multinazionali del settore ovviamente non riconoscono il valore di questi studi, tanto meno i manager che si muovono nella logica di accumulare capitali. Ma anche in agricoltura, dice uno degli intervistati, ci si dovrebbe ispirare sempre più all’ecologia e a filosofie che vanno verso un’agricoltura, un’alimentazione sempre più bio. Se poi ci spostiamo dalle condizioni di produzione a quelle di vita dei produttori, le cose non vanno meglio. Anzi. La concorrenza sempre più spietata tra agricoltori ha fatto alzare i tassi di suicidi, tanto che una seduta della Commissione Ue è stata interrotta da José Bové con la richiesta a tutti i presenti di alzarsi per un minuto di silenzio in ricordo di queste vittime del lavoro. E questo è uno dei momenti più forti del film di Pichler. Con meno vis drammatica, commenta sorridendo un contadino tedesco: “Guadagniamo più con la merda, utilizzando i liquami della lavorazione grazie ai quali si possono produrre gas ed elettricità che poi vendiamo, che con il latte che esce dalle nostre fattorie”.
COUNTRY OLD MAN – A duemila metri di altezza, sulla cordigliera andina dell’Ecuador settentrionale, tra la cittadina di Ibarra e la capitale Quito, una comunità di pensionati statunitensi vive nella cittadina di Cotacachi. “Perché se fossimo pieni di soldi vivremmo nel nostro paese, non qui“, chiarisce apodittico uno degli intervistati del divertente film-reportage Country Old Man di Stefano Cravero (41 enne montatore piemontese al debutto nel lungometraggio) e Pietro Jona (49enne al suo primo film). Espatriati con entusiasmo per il tempo mite e i costi contenuti della vita (a parità di pensione), per la bonomia di molti abitanti e l’aspetto lindo e pulito, tutto sommato, delle case che hanno comprato, questi tranquilli yankee scoprono col tempo qualche lato più malinconico di un’esistenza sudamericana che avviene in gran parte in un ghetto, dorato forse ma per molti chiuso, anche per le ataviche paure e ossessioni di sicurezza che si sono portati dietro dagli States. Così nel film si documenta con arguzia qualche divisione interna al gruppo. Dice un signore con tono amaro, “Gli americani, qui all’inizio hanno comprato le case per sé, ma poi hanno iniziato a speculare su appartamenti e terreni, esattamente come facevano in patria, prima. Non solo gli ecuadoriani ci fregano, bisogna stare attenti anche ai nostri connazionali: è vero, molte cose si sono rivelate migliori di come ci aspettavamo, però ora basta far arrivare americani, troppi gringos rovinano tutto”. E una gentile signora rimbrotta le sue omologhe. “Molti non visitano neanche l’Ecuador, dove c’è tanto da vedere, non imparano lo spagnolo, non vanno nei mercati perché hanno paura della gente. Restano solo nella casetta del resort a guardare la televisione”.
Un po’ a sorpresa, nella scelta di questo paesino, fa premio un tema che non ti aspetteresti: “Siamo venuti in Ecuador perché qui le armi sono proibite (e nel film si vede in tv il discorso delirante del presidente Trump, dopo l’ennesima strage in una scuola, che diceva di voler armare gli insegnanti così sparano prima loro). Molti nostri conoscenti invece non sono venuti perché non avrebbero potuto portare la loro pistola. E allora io dico: buona idea, restate pure in America con le vostre pistole”. Però dilaga comunque anche qui il tema sicurezza con muri sempre più alti verso il mondo esterno e inferriate ovunque, anche elettrificate (“Ma possono uccidere? No, è corrente alternata, non continua, non uccide”, assicura l’immobiliarista della situazione). Il film ha poi due finali, a loro modo entrambi malinconici e riusciti; un signore ricorda il funerale della madre, mentre è in un ristorante di pesce, per poi raccontare che hanno sparso nel lago le ceneri, e le trote se le sono mangiate, e loro sono qui a mangiare le trote: Così, alla fine, “I eat mommy”. Un altro risponde ribadendo la sua felicità per questo espatrio: “You bet (puoi scommetterlo), I’m pretty lucky to be here”. Sarà anche vero, ma mentre fuori diluvia e la classica coppia agée si accomoda davanti al piccolo schermo, un sandwich in mano e le immagini dell’immancabile torneo di golf che scorrono, tutto pare maledettamente uguale a ciò che accade in tante casa dell’Ohio e del Montana.