La Sarfatti rivive a Milano. Spunti per una visita al Museo del Novecento

In Arte

Critica e agitatrice culturale, socialista accanto ad Anna Kuliscioff e fascista accanto a Mussolini di cui fu amante e biografa. Una mostra in Palazzo Reale cerca di raccontare la complessa figura di Margherita Sarfatti attraverso le opere degli artisti che hanno incrociato la sua strada: da Sironi a Funi, da Carrà a Wildt.

Non è facile definire con rigidi tratti inquadratori le personalità complesse, che riserbano in loro le più disparate sfaccettature. La figura di Margherita Sarfatti (1880-1961), nota giornalista e critica d’arte del secolo scorso, si distingue proprio a causa della poliedricità che le appartiene, e per il sagace acume intellettuale che le permise di assumere il ruolo di concertatrice dell’organizzazione e della valorizzazione artistica nella scena milanese degli anni Venti.

L’esposizione temporanea di opere di artisti a lei vicini – curata da Anna Maria Montaldo e Danka Giacon coadiuvate da Antonello Negri, organizzata in collaborazione col Museo del Novecento (dal cui ingresso si accede), ma allestita di fatto nelle sale dell’ala occidentale del Palazzo Reale di Milano fornite, con gentile concessione, per l’occasione – intende presentare appunto una visione d’insieme dei molteplici legami instaurati dalla Sarfatti con la scena artistica milanese e italiana, a partire dal suo arrivo a Milano nel 1902 da Venezia, fino circa alla metà degli anni Trenta, periodo in cui i suoi rapporti con Mussolini, di cui è l’amante ‘favorita’ prima di Claretta Petacci, si incrinano definitivamente.

La mostra, intitolata Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci (riprendendo il titolo di una raccolta di contributi critici della Sarfatti del 1925), risulta articolata in undici sezioni e ospita fino al 24 febbraio 2019 – in contemporanea ad un’altra esposizione dedicata alla Sarfatti al Mart di Rovereto – una selezione di novanta opere, fra le quali spiccano soprattutto le presenze degli artisti del movimento Novecento, di cui l’intellettuale fu promotrice fin dalla sua nascita, nel dicembre del 1922.

Mario Sironi, Ritratto di Margherita Sarfatti, 1916-1917, pastello e tempera su cartone, 60 x 44 cm, collezione privata, Roma

Dopo la visita alla mostra pare rispettata, in base ai propositi dei curatori che si prefiggono che l’esposizione funzioni come una «narrazione che si dipana nelle sale», la volontà di una sottolineatura della pluralità di aspetti che una personalità complessa come quella della Sarfatti richiama su di sé. La scelta di non concentrare l’attenzione su un’unica implicazione connessa al rapporto della Sarfatti con il contesto culturale a lei circostante permette quindi al visitatore una panoramica d’insieme a proposito della scena artistica milanese degli anni Venti e Trenta, decadi in cui fioriscono particolarmente vivaci rapporti fra artisti, galleristi, compratori e critici. Ma quali sono dunque gli aspetti salienti messi in luce dalla mostra? Ci pare che quelli descrivibili in maniera migliore siano tre.

Innanzitutto è possibile ravvisare una particolare attenzione verso la Milano del primo Novecento, città dinamica, industrializzata e che ospiterà al suo interno l’incontro di diverse personalità alla ricerca di un’arte che sia contemporanea. È a Milano che nel 1912 la Sarfatti conosce Mussolini – allora direttore della rivista di indirizzo socialista «Avanti!» – con cui presto nasce una relazione extraconiugale per entrambi (Margherita era infatti sposata dall’età di diciotto anni con l’avvocato Cesare Sarfatti). Nel capoluogo lombardo si concretano svariate esperienze d’arte: si susseguono infatti nell’ambiente milanese dall’inizio del secolo, arrivando poi agli anni Venti, periodo in cui nasce Novecento, scelte pittoriche assai diverse. Milano è raffigurata ad esempio, prima della capillare diffusione delle istanze futuriste, secondo una tecnica erede del divisionismo: in mostra è possibile osservare una tela a soggetto paesaggistico di Boccioni del 1909, intitolata Crepuscolo, che ben testimonia lo stilema pre-futurista del pittore calabrese, diverso da quello riscontrabile nella poco successiva La città che sale (1910-1911, bozzetto alla collezione Jesi di Brera) in cui si afferma la volontà di figurazione del movimento, cara ai futuristi.

Umberto Boccioni, Crepuscolo, 1909, olio su tela, 90 x 120 cm. Collezione privata

È una Milano considerabile implicitamente quasi “seconda capitale” del Regno d’Italia quella che ospita l’esposizione universale del 1906 – ricordata nella mostra con la testimonianza di un manifesto dell’occasione. La Sarfatti, che rimarrà nel capoluogo fino al 1929 per poi recarsi a Roma, entrerà in contatto progressivamente con il milieu milanese: dapprima vicina all’ambiente socialista (diviene amica di Anna Kuliscioff, compagna di Filippo Turati e con lui fondatrice del Partito Socialista Italiano), se ne distacca poi per divenire sostenitrice della politica mussoliniana. Oltre che amante del Duce, Margherita ne fu infatti anche la prima biografa in vita. A tal riguardo è ospitata nella mostra, in una delle tre teche contenenti documenti d’epoca, una copia originale della biografia in lingua italiana Dux, edita da Mondadori nel 1926, traduzione della stessa Sarfatti della sua opera in inglese The life of Benito Mussolini, pubblicata l’anno prima.

Nel suo salotto milanese in Corso Venezia, ogni mercoledì sera, la Sarfatti era solita invitare gli artisti operanti nell’area del capoluogo. Giungiamo, con il discorso sulle personalità artistiche vicine alla critica, al secondo lato saliente della mostra: la premura che i curatori hanno dedicato specificatamente al variegato panorama delle opere degli artisti di Novecento. Fanno parte del gruppo Anselmo Bucci (che ne conia il nome), Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gian Luigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi e Mario Sironi. Le opere dei sette fondatori occupano, a buon diritto, le sezioni di più ampio respiro e centrali all’interno dell’esposizione.

Leonardo Dudreville, Amore: discorso primo, 1924, olio su tela, 266 x 364 cm, Collezione Fondazione Cariplo, Milano

La mostra ospita infatti una selezione di opere prevalentemente degli artisti citati, e provenienti per la maggior parte da collezioni milanesi e lombarde. Gli interessi pittorici degli artisti del movimento Novecento sono rivolti soprattutto (ma non esclusivamente) alla trasposizione rinnovata secondo uno stile personale di svariati soggetti della canonica tradizione pittorica: il nudo, la natura morta, il paesaggio ecc. Tale tendenza è definita dall’ottica descrittiva delle dinamiche della Storia dell’arte come “ritorno all’ordine” a seguito delle esperienze delle Avanguardie Storiche, dai cui i pittori di Novecento si discostano in base ad una loro esigenza di ritorno alla forma e al volume. Parliamo dunque ora di alcune fra le opere esposte.

Impossibile non soffermarsi su Mario Sironi, il pittore più famoso del gruppo, molto presente nella mostra con diverse testimonianze della sua evoluzione artistica. Dapprima vicino agli stilemi futuristi (un esempio esposto riguardante tali influenze è Trincee del 1914), Sironi via via se ne allontana alla volta di propositi figurativi che insistono su volumi solidi e pieni, che ricordano per i soggetti dipinti la ieraticità arcaistica (una testimonianza di questi interessi è Il contadino del 1928), e scene di desolazione urbana (esemplificativo di tale filone è un Paesaggio urbano del 1924). Una buona scelta espositiva è segnata poi dalla collocazione di un’imponente tela di Leonardo Dudreville (ben 266 × 364 cm), Amore, discorso primo (1924), sulla parete di una sala opposta alla facciata del Duomo, osservabile dell’ala occidentale del Palazzo Reale. L’effetto d’illuminazione naturale nelle sezioni V e VI rende particolarmente suggestivo quindi l’ambiente centrale dove la colossale tela è ospitata. Suggestiva è senza dubbio anche la presenza di Achille Funi, che fra i membri del gruppo è probabilmente l’esponente che si distingue per alcune scelte figurative vicine alle tendenze della pittura metafisica; ne sono un esempio la tela Il bel cadavere (Le villeggianti) (1919-1920), ispirato all’omonimo romanzo del futurista milanese Paolo Buzzi e poi un singolare ritratto di Margherita Sarfatti con la figlia Fiammetta (1919). Riprese di tematiche di genere degne di menzione sono poi offerte da diverse opere; qualche esempio: molto ripresentate negli anni Venti sono le nature morte, genere calcato da diversi artisti (in mostra a tal riguardo sono osservabili le tele di Malerba, Marussig e Oppi); interessante sempre il caso di Funi, che ripropone il tema della lettrice in Lettura domenicale (1926); svariate anche le tele con soggetti di nudo, di cui si riscontrano esemplari pittorici di Carrà, Casorati, Funi e Sironi.

Achille Funi, Il bel cadavere (Le villeggianti), 1912-1920, olio su tela, 112,5 x 100 cm, Museo del Novecento, Milano Collezione Boschi Di Stefano

L’ultimo aspetto degno di nota nella descrizione del clima artistico e culturale circostante alla Sarfatti è costituito dall’evidenziazione (tramite soprattutto l’esposizione di diversi documenti cartacei nelle teche) di un fenomeno di grande importanza per le dinamiche dell’arte contemporanea: il rapporto fra le gallerie d’arte e gli artisti. È sì grazie all’azione promotrice degli scritti della Sarfatti che Novecento viene valorizzato, ma è inizialmente in Lino Pesaro (1880-1938) che viene reperito il gallerista disposto ad ospitare la prima esposizione ufficiale del gruppo, nel marzo 1923. La stessa Sarfatti sollecita il ministro dell’istruzione affinché siano acquistate le opere dei suoi protetti alla prima mostra di Novecento, ed ottiene che la rassegna dei sette membri abbia uno spazio alla XIV Biennale di Venezia del 1924. Dopo questa esposizione viene a mancare l’accordo fra i sette fondatori di Novecento e si apre una nuova esperienza del gruppo, che rinasce come Novecento Italiano ed è disponibile alla collaborazione con altri artisti italiani di valore quali ad esempio Carrà, De Chirico, Casorati e Soffici; fra le più note esposizioni di Novecento Italiano la mostra ricorda in particolare quelle alla Permanente nel 1926 (esposto nelle teche il catalogo originale delle opere selezionate per quell’occasione) e nel 1929.

Tirando quindi le somme sull’impressione suscitata dalla mostra, si ribadisce che l’esperienza di visita offerta allo spettatore rispetta il proposito dei curatori di presentare la figura di Margherita Sarfatti «con una visione circolare». Sul piano prettamente organizzativo è da lodare la premurosità per una quasi assidua descrizione di ogni opera tramite cartellino; anche l’illuminazione riesce generalmente a creare le giuste condizioni per osservare le opere esposte. Oltre alle tre teche a cui si è accennato, l’esposizione ospita quattro abiti femminili di foggia sartoriale e quattro mobili risalenti all’epoca in esame. Poche presenze scultoree, ma d’importanza: un’opera rispettivamente di Medardo Rosso, di Arturo Martini e di Marino Marini, mentre tre sono quelle di Adolfo Wildt.

Felice Casorati, Meriggio, 1923, olio su tavola, 119,5 x 103,5 cm, Museo Revoltella – Galleria d’arte moderna, Trieste
© Felice Casorati by SIAE 2018

Va fatta però un’ulteriore osservazione: la mostra Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci differisce in un certo senso dalla classica esposizione temporanea a cui siamo abituati nel centro cittadino milanese – per certi versi spesso eccessivamente commerciale e commercializzata. Chiaro è che chi visita una rassegna artistica può avvicinarsi alle opere d’arte per puro svago in maniera disinteressata e per apprezzarne il valore estetico secondo il gusto personale, ma ci pare che nel caso di una personalità operante in un periodo storico molto controverso come quello del primo cinquantennio del Novecento, l’evento dedicato alla Sarfatti possa offrire una valida opportunità di riflessione per ogni visitatore interessato alla storia della cultura italiana. Ci si riferisce all’approfondimento del rapporto del ceto intellettuale italiano con un contesto storico che ne condiziona l’operato in maniera radicale. Le sorti dell’arte risalente al ventennio coincidente col governo del regime fascista e le sorti stesse della Sarfatti (che sarà costretta nel ’38 ad emigrare in Uruguay a causa delle leggi razziali, dopo essere stata scalzata dal primato nell’ascendenza sulla vita artistica italiana dal romano Cipriano Efisio Oppo) offrono dunque uno spunto al visitatore per un’ulteriore riflessione a proposito di un ventennio che, nel bene e nel male, ha influenzato in maniera ineludibile la determinazione storica delle sorti dell’Italia odierna.

 

Margherita Sarfatti. Segni, colori e luci, a cura di Anna Maria Montaldo, Danka Giacon, Museo del Novecento, fino al 24 febbraio 2019

Immagine di copertina: Mario Sironi, La famiglia, 1927-1928, olio su tela, Roma, Galleria d’Arte Moderna di Roma

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