Ritorna sulle scene l’opera di Richard Kalinoski, un dramma che oscilla tra la denuncia del genocidio armeno e un vocativo inno alla vita. Fino a domenica 21 ottobre, il teatro dell’Elfo ospita Una bestia sulla luna, testo inscenato in tutto il mondo e vincitore di cinque premi Molière in Francia, con l’attenta resa registica di Andrea Chiodi
Ha debuttato ancora una volta questa storia che porta a galla gli eterni contrasti e gli eterni ritorni; ha debuttato ancora una volta la memoria che ha preso lentamente il posto dei ricordi; ha debuttato ancora una volta il Kalinoski di Una bestia sulla luna. Una luna che fa da satellite e che si eclissa dietro al dolore di una vicenda sovente dimenticata, colma di dubbi e di esistenzialismi rimossi.
È il 1921, Milwaukee, USA. A incontrarsi sono un uomo e una donna-bambina, entrambi disperati e conflittualmente in collisione per un bene superiore: la rivincita di se stessi, la conquista di un’esistenza più normale, di un amore più normale, chi provandoci nel silenzio e chi nel dolce rumore della vita.
Lui è Aram Tomasian (Fulvio Pepe), un fotografo figlio d’arte, sopravvissuto al genocidio del popolo armeno, senza più una famiglia da accudire e con il preponderante desiderio di ripartire daccapo, affrontando un nuovo percorso, assai meno turbolento. Aram decide allora di sposare per procura una giovane armena, la quindicenne Seta (Elisabetta Pozzi).
I due si conoscono, ma si riconoscono a fatica e il loro incontro viene suggellato sul palcoscenico da una fotografia senza volti e da una bambola di pezza sdrucita, dai progetti non esauditi di Aram, dai timori adolescenziali di Seta, da traumi condivisi e dalla carenza di affetto che entrambi sono costretti a condividere in un’iniziale e distaccata vicinanza.
In poco meno di due ore di spettacolo, sentite tutte nel loro dipanarsi di temi, attese e silenzi pesanti, la loro storia d’amore diventa più di una vicenda di crescita e di un bisogno di riconoscimento e valorizzazione reciproca, merito anche della resa performativa degli attori.
Elisabetta Pozzi è di una grazia controllata incredibile, attenta alle sfumature delle sue parole, così come delle sue battute, abile a far intendere allo spettatore ciò che viene detto e ciò che viene volutamente celato dal testo. Una voce, la sua, intonata e con un timbro funambolico, plasmato sull’esperienza, sulla vitalità e sul sapore di pose e di pause.
I giusti attacchi e l’esatta collaborazione con Fulvio Pepe rendono ogni scena perfettamente incastonata a se stessa, e alternata negli interventi-guida di Alberto Mancioppi, la versione âgée del figlio adottivo, Vincenzo. Quest’ultimo viene interpretato da Luigi Bignone, bravissimo nel ruolo bambinesco e infantile dell’orfanello vispo, simpatico e deliziosamente commovente; si potrebbe anche dire che il suo arrivo sul palco è un meritato picco di gioia che allenta alcuni momenti troppi fermi e meditatamente densi.
La regia di Andrea Chiodi si vede e si sente; non solo per le tanto da costui apprezzate e adoperate proiezioni sullo sfondo, ma anche per la configurazione e la capacità di plasmare tre caratteri, filologicamente ottusi e restii, in un gruppo coeso e scrupolosamente messo in funzione da ingranaggi che si notano subito, con movimenti imprevedibili, sguardi e vibrazioni sempre nuove che emanano le battute.
Le scene di Matteo Patrucco sono a scompartimento ed essenziali, con una luminotecnica basica che fa da cornice alle vicende, distese e srotolate come un rullino su un decoupage di memorie fotografiche.
La dolcezza di alcune battute, merito della traduzione di Beppe Chierici, e il modo in cui vengono recitate, allentano le tensioni e sviluppano finanche con grande umanità l’animo dei singoli personaggi, coinvolgendo lo spettatore in uno sguardo più solidale, senza però cedere il passo ai patetismi.
Anche se non viene mai raggiunta, è la normalità che si vuole recuperare e riconquistare! Ed è proprio vero che si tratta di un’impresa eccezionale…
Una storia toccante.