Da Marguerite Duras, un lavoro provocatorio che osa – grazie alla forza visiva del regista Lorenzo Ponte e di due efficaci protagonisti
Corporeità sospesa. È un apparente ossimoro a racchiudere Tu sei Agatha, in scena al Teatro Franco Parenti fino al 21 ottobre. Cristallizzato nell’attimo prima di rompersi e successivo alla consapevolezza che accadrà, c’è l’incontro – probabilmente l’ultimo – tra due persone che condividono memorie, appartenenza, sangue.
Una frazione in cui il tempo scorre solo all’indietro, scompostamente, nell’irrompere improvviso di ricordi, porzioni di esistenza condivisa fin dall’inizio. Istanti che compongono un segreto sempre custodito ma non del tutto ignoto. “un amore che non ha nome nei romanzi e non ha nome neppure per quelli che lo vivono.
Si tratta di un amore perduto. Perduto, “da perdizione”, come scrive Marguerite Duras, autrice di cui questo testo è forse uno dei più provocatori.
Un amore estremo, ragione di sopravvivenza, la cui imminente fine ha sapore di morte per chi resta ma non necessariamente di salvezza per chi va.
Un sentimento che da perno prima di tutto sui corpi: ed è la verità dei corpi quella che Lorenzo Ponte sceglie di portare in scena, in una nudità integrale che non ha niente della provocazione scenica cui ancora il nudo, pur ormai sdoganato, viene spesso ancora associato; ha invece tutto della scelta di coerenza con la messa in scena, in un legame che esige l’assenza di qualsiasi protezione.
“Il vostro corpo sarà portato lontano dal mio corpo”, e nel gioco della formalità con cui si rivolgono l’uno all’altra si maschera la più profonda e inconfessabile delle dipendenze reciproche, la cui rottura appare quasi più dichiarata che reale, come se il momento che precede lo strappo potesse essere dilatato all’infinito. Le parole in questo lavoro suggeriscono una lettura diversa da quella che sarebbe istintiva.
Ascoltandoli, si realizza che questi corpi non si toccano, raramente si guardano, si impongono di respingersi, negare col gesto le parole, la loro intensità di lirismo e pathos – costringe i due ottimi interpreti Valentina Picello e Christian La Rosa a un lavoro potentemente emotivo ma necessariamente trattenuto, costruito in sottrazione – e che denuncia l’appartenenza a un testo letterario nell’eleganza della prosa, cui il regista sceglie di conservare il segno, portando sulla scena, come parte necessaria del copione, le porzioni precedentemente fatte didascalia, fino a sfumarle completamente all’interno di esso, in bilico tra sogno, desiderio e preziosità letteraria.
Una molteplicità di echi e letture che rendono la misura della difficoltà e della ricchezza della scelta di un testo come questo, per il regista Lorenzo Ponte, che richiede un coraggio che il giovane non teme di dimostrare e rendere evidente. La sua mano è decisa, e passa attraverso la rottura delle regole.
Osa, come osano i suoi personaggi. In particolare per quanto riguarda le luci, a cui si deve la gran parte dell’efficacia scenica dell’intero lavoro. La “luce d’inverno nebbiosa e cupa” suggerita dal testo fin dall’incipit si rifrange in una molteplicità di scelte, tra vaste porzioni di buio e quelli che superficialmente apparirebbero puntamenti sbagliati, ma sono tagli di luce accuratamente ricercati per segnare porzioni di realtà, riportando plasticamente la centralità dei corpi e trasportando sul palcoscenico quelli che a tratti appaiono come tableaux caravaggeschi.
Ne risulta un lavoro di grande efficacia visiva e di forte impatto, acuito dallo spazio estremamente raccolto dentro cui si dipana.
Meritoria anche la messa in scena originale ed estremamente ragionata, come raramente si spingono a fare i giovani registi. In questo caso invece accade, e l’apporto di due sicuri talenti come Piciello e La Rosa fa di questo Agatha uno spettacolo pregevole, capace di sorprendere e portare quella carica di origianlità di cui alcuni, sui palcoscenici italiani, lamentano l’assenza.