Il palermitano Stefano Savona è stato uno dei primi documentaristi a entrare con una cinepresa nella striscia di Gaza, martoriata dalle ripetute incursioni dell’esercito israeliano, all’inizio degli anni 2000. Dopo aver unito i corti girati lì in Piombo Fuso (2009), premiato al Festival di Locarno, con “La strada dei Samouni” tenta, con pieno successo, un esperimento multimediale complesso e affascinante: raccontare la storia di una ragazzina rimasta sola, dopo la morte dei suoi parenti, tra le macerie della casa, e alternare a questo le animazioni di Simone Massai, che rielabora i suoi ricordi e i suoi incubi, e le immagini delle azioni militari riprese da droni, “commentate” dai dialoghi tra i soldati e gli ufficiali
Insieme a Dogman di Matteo Garrone e Lazzaro felice di Alice Rohrwacher, La strada dei Samouni di Stefano Savona, presentato in concorso alla Quinzaine Des Réalisateurs e insignito del premio Oeil d’Or, è il terzo fiero esponente del trittico degli italiani premiati al Festival di Cannes 2018. Dopo l’ottima accoglienza ricevuta in occasione della sua proiezione al Festival di Internazionale di Ferrara, da pochi giorni il film è arrivato nelle sale italiane grazie alla distribuzione curata dalla cineteca di Bologna, che lo ha sostenuto fin dalla presentazione del progetto.
“Chi non sa raccontare non è un vero uomo, è una bestia”, bisbiglia uno degli abitanti di la Strada dei Samouni. Non si tratta di una battuta ad effetto, quanto della dichiarazione di poetica del regista, che nella sua storia vuole mostrare una vicenda che sarebbe altrimenti solo una deviazione dalla Storia ufficiale. L’opera parte dalla vicenda di Amal, una bambina, superstite della famiglia palestinese dei Samouni che nel gennaio 2009, durante un’operazione militare israeliana chiamata Piombo Fuso, studiata e messa in pratica per colpire la popolazione di Gaza, venne decimata senza motivo: non stava infatti opponendo alcun tipo di resistenza, ma ventinove membri dello stesso nucleo famigliare perirono.
A dare spessore umano alla vicenda narrata è la sensibilità del regista, documentarista pluripremiato, palermitano di nascita e parigino d’adozione, noto per le sue installazioni video (tra cui D-Day, presentato nel 2005 al Centre Pompidou) e per gli ottimi documentari come Primavera in Kurdistan (2006), candidato al David di Donatello, e Tahrir Liberation Square (2011), vincitore di David di Donatello e Nastro d’Argento.
Filo narrante della vicenda è proprio quella bambina, reduce di un evento inenarrabile: dopo aver perso madre e padre fu dimenticata nella casa assieme ai morti e data per spacciata. Il film diventa così una fiaba nera che dà voce alla memoria di qualcuno che ha vissuto un’esperienza da cui normalmente non si fa ritorno. L’iniziale incapacità della piccola di ricordare viene superata proprio grazie al cinema, che assolve così a funzioni terapeutiche: attraverso le sue parole, affidate allo sguardo silente della telecamera, la bambina cerca di rianimare una memoria obliata dal dolore.
Il cinema si trasforma così in una realtà sognata, un incubo che Savona non si è permesso di distorcere a banalizzazione della tragedia, melensa cronachistica o aneddotica del politically correct. Non è una tragedia senza dramma o un documentario senza rielaborazione: per trovare la giusta via Savona ha lavorato per dieci anni su una serie di corti girati durante la sua permanenza a Gaza, e successivamente diffusi online come patchwork di corti di denuncia, Piombo Fuso (2009), Premio speciale della giuria Cineasti del presente al Festival di Locarno n. 62.
Nonostante l’eccezionalità e il valore storico del lavoro (armato di telecamera, il regista è stato uno dei primi a riuscire a valicare la striscia di Gaza in quel periodo, forzando il blocco delle truppe d’occupazione), il materiale non era sufficiente per poter dare alla luce un lungometraggio: così l’autore si è rivolto alla matita di uno dei più famosi disegnatori italiani, Simone Massai, noto per realizzare a mano ogni singolo fotogramma dei suoi corti (è stato anche già autore di cinque manifesti della del Cinema di Venezia), il quale ha arricchito le testimonianze dei sopravvissuti con il disegno delle loro parole e delle memorie ritrovate.
Ma come poter mostrare i massacratori? Savona offre una rappresentazione in digitale dell’esercito israeliano, ripreso dal punto di vista di vari droni, e arricchito da vere registrazioni dei dialoghi dei militari con la stazione di comando. Tre stili e tre generi diversi che Savona è riuscito ad intrecciare alla perfezione, in un documentario animato da ascoltare e sentire.
La strada dei Samouni, di Stefano Savona, con le illustrazioni di Simone Massai