Bella figura, Yasmina Reza porta al Carcano lo specchio dei nostri fallimenti
«Nelle mie opere non racconto mai vere e proprie storie, a meno che non si consideri l’incerta e ondeggiante trama della vita, di per se stessa, una storia».
Yasmina Reza presenta così il suo Bella Figura, che dopo il debutto al teatro Il Maggiore di Verbania è in scena al Carcano di Milano. In una frase l’autrice franco-algerina sintetizza perfettamente uno stile che il pubblico ha ormai ben imparato a riconoscere, e che si ritrova anche nello spaccato di vita di Andrea, impiegata in una farmacia e madre single, e di Boris, imprenditore di verande sull’orlo della bancarotta impegnato a gestire l’errore di aver appena confessato all’amante che il ristorante in cui intende portarla è un consiglio della moglie.
Nella concitazione irrompono Yvonne, suo figlio Eric e sua moglie, Francoise, amica di vecchia data di Patrice, moglie di Boris. Questo è quanto occorre sapere, in fin dei conti, della trama di una commedia in cui una patina lieve e surreale vela uno squarcio di esistenza quanto mai concreto, di quotidianità minuta, che non ha bisogno di strappi lirici o teatrali nel senso comune del termine, perché tanto la risata – intelligente e mai crassa – quanto il coinvolgimento sgorgano dall’inevitabilità di riconoscersi dentro a relazioni che deflagrano e si ricompongono senza boati.
È la misura della realtà a dare forma al testo della Reza, ed è proprio lì che ne risiede l’intelligenza e l’efficacia, che la regia di Roberto Andò serve affidandosi a una messa in scena dove tutto è visibile, automobili incluse, tutti gli spazi sono resi concreti e dividono la scena in sezioni ben distinte, segnate anche da un sipario mobile che sembra quasi voler mimare quelli che al cinema sarebbero cambiamenti di set, interni nei quali i suoi personaggi sono talora ammassati quasi claustrofobicamente, costretti a confronti che Bella figura porta in scena esasperandoli solo quanto è necessario a renderli visibili.
Ne risulta una pièce densa e tutt’altro che semplice, in cui i piani di lettura si sovrappongono, nella quale è un lavoro di limatura e di esattezza, e non il suo opposto, a garantire la leggibilità di figure che si fanno in certo modo archetipiche. La goffaggine del Boris di David Sebasti e la mediocrità con cui Eric si impegna a illudersi che nulla stia avvenendo, del tutto assorbito dalla propria dipendenza dalla madre che Paolo Calabresi rende evidente, poggiano senza dubbio su validissimi interpreti, ma è nelle figure femminile che Reza concentra (e forse mostra) l’orizzonte del proprio sguardo. La forza dello spettacolo sta infatti nelle donne che tratteggia: la rigida e combattuta Francoise, in cui Lucia Mascino ritrova un carattere che le è perfettamente congeniale e a cui basta un tono e un gesto minimo come sciogliere i capelli per dare il segno plastico di un cambiamento profondo, e la vitale eppure dolente Andrea di Anna Foglietta, a cui sono affidati i passaggi letterariamente più eleganti e scenicamente chiarificatori. «Io sono quella che andrebbe ed eternamente resta».
È in loro che Reza dipana – evitando nella stessa misura il didascalismo e l’autocompiacimento vezzoso del drammaturgo – il suo messaggio, nascondendolo in vista fra le pieghe dei vissuti, nel sogno di cambiare, di andare altrove ed essere altro da sé che si è che ognuno, lungo la propria esistenza, ha covato e poi invariabilmente rinnegato. I motivi che non è necessario esplicitarli perché ciascuno può senz’altro identificare la propria individuale risposta e gabbia autoinflitta, cui la libertà senza inibizioni dell’anziana Yvonne incarnata da Simona Marchini offre la rappresentazione più divertente e insieme più spietata, inchiodando col semplice esserci chi le è intorno al coacervo di frustrazioni che porta sulla scena della vita.
Il lavoro di Jasmina Reza, sostenuto da delle interpreti di evidente talento che se ne immergono e lo sanno rendere con la misura migliore, riesce ancora una volta ad essere specchio del lato più scomodo di tutti, quello che sceglie liberamente di arrendersi a ciò che forse desidera ma non ha il coraggio di ottenere. E allora non resta che accogliere questo reciproco riconoscersi come simili, cedere alla consapevolezza e appoggiarsi all’altro, cercare di non rimanere soli nelle “serate scombinate” e provare, dentro alle battaglie nelle quali ci si è conosciuti, anche mentre tutto crolla, a fare bella figura, consapevoli e insieme arresi all’esito: «uno parte con il suo piccolo armamentario, ad affrontare il mondo. Crede che l’esercito avanzi, e invece resta lì, a sfiorire».