Cenerentola ha un problema di autostima, Biancaneve trova che il Principe sia barboso, il lieto fine è sempre un po’ agro e allo spirito della Fiaba tocca intervenire in prima persona per rimettere le cose a posto. Robert Walser mette mano alle storie dei Fratelli Grimm e inventa da capo il mondo dei personaggi: egoisti, grotteschi, esagerati, in crisi. E terribilmente simili a noi.
Dramolette, cioè ‘drammettini’, piccoli drammi, chiamava i suoi brevi testi teatrali Robert Walser con la consueta autoironia.
I primi sono stati scritti tra il 1900 e il 1902, pubblicati in varie riviste letterarie e poi raccolti in volume dallo stesso Walser con il titolo Comödie, Commedia, nel 1919; diventarono presto tra i testi preferiti da Franz Kafka, forse perché sono così terribilmente, deliziosamente sfuggenti, ingannevoli. Ed ora Adelphi ne fa una nuova edizione.
Si tratta, in tutto, di una decina di brani teatrali, tre dei quali riprendono le famose fiabe dei fratelli Grimm: Cenerentola, Biancaneve e la Bella addormentata nel bosco.
Sono scritti in versi e la forma poetica fa tutt’uno con la sostanza letteraria: accompagna cioè col suo ritmo lo svolgersi dell’azione, oppure contrasta, rende stridule certe situazioni, aiuta a mischiare e confondere invenzione letteraria e buon senso quotidiano.
Il fatto insomma che si tratti di componimenti poetici, quindi di una forma letterariamente alta e rassicurante permette a Walser di trasformare le favolette per bambini in qualcosa di inquietante, di deformarle attraverso un’ironia venata di buon senso e di una comicità paradossale, com’è nel suo registro. La forma metrica insinua attraverso il compiaciuto divertimento letterario il verme di un’ironia sfottente e malinconica.
Io non voglio piangere, se quelle
m’ingiuriano alle lacrime: male
non è tanto l’ingiuria, ma il pianto.
(…)
Mi tormentino pure con cieca
Rabbia e con il velen dell’assillo,
io ne sorrido. La mia natura
come un sole rischiara la loro.
Così, nel primo Dramolette, dice Cenerentola delle sorellastre e della matrigna, dimostrando una forza di carattere che rasenta i vertici di saggezza di un Buddha illuminato; ma più avanti la remissività della dolce fanciulla prende una piega più ambigua, fino a rasentare la perversione del masochismo.
Dopo l’ennesima prepotenza, eccola in ginocchio implorante davanti alla sorellastra:
Non penso ad altro che a servirti.
Per te sono un cofano aperto:
Vi trovi dentro – pelliccia nuova
Pronta a scaldarti – la mia solerzia.
Caloroso ti serve il mio cuore.
La tua mano, ti prego mi picchi…
(…)
Picchiami, picchia, ti prego.
Il controcanto patetico è impersonato dal Principe, angosciato dal senso della vita, che ne chiede la causa al Buffone, come Amleto al teschio di Yorick.
E il Buffone, tra mille giochi di parole e sillogismi che si mordono la coda, risponde che la risposta non è da cercare in astruse teorie, in ingannevoli stratagemmi. La causa dell’angoscia è da trovare in noi stessi, siamo noi il dondolo che la culla, siamo noi il letto su cui si stravacca.
Il principe inquieto si addentra in un bosco, si chiede come abbia fatto a capitare in questa fiaba, quando incontra Cenerentola e ne resta ammaliato: è certo un angelo che si dissolverà appena le rivolge la parola.
La fanciulla si schernisce:
Son Cenerentola, signore.
Vedete, la sporca mia veste
parla più chiaro delle mie labbra.
Ma perché un principe con tanto di manto d’ermellino, di spada e stiletto – in vero un po’ fuori moda – dovrebbe innamorarsi di una poveretta come lei?
È la semplicità, la ritrosia di Cenerentola, un prodigio che prodigio essere non vuole a conquistare il principe o è la forza inesorabile della Fiaba che l’ha condotto a lei e al matrimonio destinato dalla sorte?
La Fiaba diventa personaggio e compare a Cenerentola donandole le vesti sontuose e le scarpette d’argento leggero come la calugine d’un cigno.
Ma come può la giovane abbandonare gli stracci sporchi che ama? Sono loro la sua identità, senza di loro non sarebbe più Cenerentola. Che ne sarà dei suoi sogni quando Principe e Fiaba la trasformeranno in una ricca e soddisfatta principessa?
Nonostante tanti tentennamenti, infine l’happy-end è d’obbligo.
Ancora più creativa la costruzione del lieto fine in Biancaneve, tra i più interessanti e riusciti Dramolette walseriani.
Anche nella fiaba dei fratelli Grimm questo è il personaggio femminile più interessante. È l’unica delle principesse vittime di un fato crudele che ha fatto esperienza del mondo, s’è ribellata al suo destino: è sfuggita alla morte per mano del Cacciatore, ha attraversato il bosco minaccioso, ha trovato rifugio nella casetta dei sette nani e ne ha preso in mano la direzione. Ragazza in gamba, non sdolcinata frignona come le sue colleghe.
Walser stravolge la fonte letteraria e ne fa un noir passionale con imprevedibili colpi di scena.
Il dramma si apre quando è già successo tutto: Biancaneve è risorta dalla bara di cristallo, ma forse è il suo fantasma, si sente morta, come molle neve che si scioglie ai raggi del sole.
La fanciulla si agita piena di rancore nei confronti della Regina assassina che ha sedotto coi suoi baci il Cacciatore per indurlo a ucciderla.
…coi baci infiammasti
quest’uomo perché mi uccidesse,
e fu decisa la mia morte
appena tra voi nacque amore.
(…)
Il vostro occhio ha un lampo beffardo
Quando, non materno, si posa
Su me torvo e accompagna
Con un riso sinistro e sprezzante le blandizie della vostra lingua…
Biancaneve è infastidita dal principe che l’ha strappata ai suoi sogni, alla vita serena coi sette nani, con quel bacio dato per adempiere al disegno della fiaba; non è attratta dal suo aspetto di damerino, dal fiume di parole, di dichiarazioni d’amore con cui la sfinisce.
Molto meglio il prestante cacciatore.
Si sfinisce anche il principe della glaciale verginella (non l’avesse mai baciata!), e si infiamma per la passionale regina.
Intervengono il Cacciatore, che mente e ritratta, il Re e le ragioni della fiaba e, nel disincanto generale, si convola a giuste nozze principesche.
Walter Benjamin ne era ammaliato, tanto che li commenta così:
Sono personaggi che hanno dietro di sé la follia, e per questo rimangono di una superficialità così lacerante, così completamente inumana, così impassibile. Se volessimo descrivere con una parola quello che essi hanno di felice e di perturbante, potremmo dire che sono tutti ‘guariti’.
Ma il processo di questa guarigione ci resta oscuro: Robert Walser ci ha attratto nel labirinto della sua mente e ci siamo deliziosamente persi.