Ha debuttato al Teatro Filodrammatici l’opera prima di Luke Norris, Il giorno del mio compleanno (So Here We Are). La regia di Silvio Peroni ha rimodellato una storia lineare e povera in una tragedia moderna, una vicenda chiara e senza effetti speciali, ma intrisa di sincera emotività. Uno spettacolo vivido ed estremamente naturale
«Dunque siamo qui», tra qualche sprazzo di luce stroboscopica e un’alta scatola di cemento armato, armato di parole forti ed espressioni tinte di un’obiettiva potenza realistica, merito non solo della traduzione di Enrico Luttmann, ma dell’ardore con il quale ogni attore fa propria la sua parte.
Si è concluso da poco un funerale, un evento che da socialmente mondano ed estremamente triste si affaccia all’ironia contrita, smorzata e spontanea di un gruppo di ragazzi seduti su di un muro grigio. Un ritratto che lascia al pubblico il susseguirsi di risate nervose e groppi alla gola. Giovanni Arezzo, Antonio Bandiera e Laurence Mazzoni ricordano Frankie/Francis/Francesco, l’amico defunto a causa di un fatale incidente automobilistico.
Ma niente commemorazioni o accoliti pietosi, si ride rispettosamente, si parla di tutto e un po’, anche di ciò che non ha nulla a che fare con le esequie terminate poc’anzi.
Nel mentre si stappano birre, viene accesa qualche sigaretta che fa da incenso alla scena, e alle conversazioni caotiche di un’immatura trinità si sommano le lacrime silenziose e disarmanti di Federico Gariglio, accovacciato a bordo-palco e con uno sguardo così vivo mentre fissa il vuoto da valere la visione dell’intero spettacolo.
Tutti stanno aspettando l’arrivo di Cri, la fidanzata di Francesco. Un’attesa che si dipana all’aperto davanti al mare, mosso e al contempo quieto come il pubblico pagante che osserva incuriosito la vicenda. Grazia Capraro entra stringendo in mano dei palloncini neri, gonfiati con elio e malinconia, pronti a essere spediti in cielo dalla comitiva, in un altrove da sempre fin troppo misterioso.
Il rito dell’ascensione dei palloncini è rapido e dà inizio alla sequenza analettica che resuscita Francesco nel giorno del suo compleanno, ed ecco spiegato il titolo. L’interpretazione di Luca Terracciano convince tutti, sicura e aderente al ruolo interpretato, in una declinazione di sospiri disperati e urla alla vita. Una sveglia tratteggia alcuni episodi concatenati da ingressi e da uscite di scena, fino a un’uscita finale e logorante.
La regia di Silvio Peroni è calcolata il giusto, non è pesante e si avverte qua e là solo qualche attimo di stasi dialogica, sicuramente voluta…
Quello di So Here We Are, testo vincitore del premio Bruntwood 2013 per Playwriting, è l’esempio di una drammaturgia apparentemente banale, che non ha da dire nulla di nuovo rispetto a ciò che già conosciamo o affrontiamo ogni mattino dopo aver sentito suonare la sveglia.
Il bello sta proprio qui, nella banalità di una vita che fa le capriole e che gioca con l’esistenza insicura di un uomo e della sua voglia di cambiare; ma non sempre cambiare è possibile e quasi sempre ci si immola dolorosamente.
Simpatia e mestizia si accorpano, ci si commuove e ci si dispera graziosamente. Di una tenerezza rara sono le carezze scambiate in banca tra i due protagonisti. La seconda parte della pièce invero richiede ancora qualche revisione di gestualità e spostamenti, ma la prima milanese ha dato i suoi frutti.
I dialoghi sono come i grani di un rosario che alla fine si spezza, come un’agopuntura che stuzzica temi disparati, dalla fuggevolezza della vita all’impossibilità di un coming out. Uno spettacolo di giovani rivelazioni, consigliato a tutti coloro che «quando hanno deciso di piangere, poi ridono».
Al Teatro Filodrammatici fino all’11 novembre.