Mozart rivisitato da Graham Vick, che di buffo lascia pochino. Tinte minacciose, vortici di voluttà per arrivare ai confini del tragico. La direzione di Stefano Montanari asseconda. Almeno nella prima parte
Non è poi così folle la “journée” che Graham Vick immagina per le sue Nozze di Figaro andate in scena all’Opera di Roma fino a domenica scorsa. Certo, non sono mancati i vortici di voluttà, la frenesia, persino i sospetti di delirio di personaggi tra i più ambigui che si possono vedere all’opera. Eppure il regista inglese, col suo elefante nella stanza che tutti fingono di non vedere – un modo di dire inglese –, ripensa al titolo più sottile di Mozart come a una danza macabra che non lascia speranza. Tanto che di buffo non resta poi granché; le tinte si fanno più minacciose atto dopo atto, con relazioni sempre più pericolose tra i personaggi fino ad arrivare, nel finale, ai confini del tragico.
Il punto è che Vick non ha in mente una guerra tra classi. Al regista non interessano distinzioni tra nobili e borghesi, perché basta un po’ di denaro e chiunque si immiserisce all’istante. Questo è evidente fin dalle prime scene, come condizione di partenza: negli arredi volgari, nelle vestaglie del Conte, nei jeans strappati della Contessa che non potrebbe essere vestita peggio.
Piuttosto il non detto che circola in casa del Conte riguarda la sopraffazione maschile, senza distinzione di età o ceto, che sia il Conte, Figaro o Cherubino, dalla maturità a ritroso fino all’adolescenza. Così la Contessa, Susanna e Barbarina subiscono loro malgrado attenzioni, carezze, pacche sempre più sgradevoli, in un crescendo di violenze destinato a chiudersi nel modo peggiore, con la resa della Contessa, che ci rinuncia e che, col suo perdono, assolve tutti: non solo il marito, ma l’intero genere maschile, in attesa di tempi migliori che non verranno. Ci si scordi il Settecento di Beaumarchais, l’illuminismo, la Rivoluzione: per Vick i tempi sono sempre bui.
Il problema è che nelle Nozze la violenza che dovrebbe irrompere sulla scena non è tanto, o non solo verso le donne: per quanto forte e coerente, allo spettacolo manca la «violenza della vita», quella di cui parla Fedele D’Amico in un saggio del programma di sala, una violenza che può essere più o meno «gaia», nel senso di brillante, spensierata, a volte spietata, di certo folle. Forse Vick ha dato alla sua messinscena una prospettiva un po’ riduttiva. Anche se è innegabile che diversi passaggi del libretto giustifichino la sua idea, quando il Conte nel secondo atto entra in camera della moglie “con martello e tenaglia in mano”, e la Contessa commenta: “Ah, la cieca gelosia qualche eccesso gli fa far!”.
In ogni caso, la scena di Samal Blak è già cult, non solo per le zampe d’elefante che minacciano di schiacciare i personaggi, ma per come si arriva a queste zampe, con un guadagno di profondità a ogni atto: il primo in avanscena, il secondo che si apre sulla stanza della Contessa con un elefante su un fondale, che acquista poi la terza dimensione nel terzo atto, fino a quando solleva una zampa per introdurci nell’allucinato finale horror, con l’effetto notte fatto solo dei passi a tentoni degli attori, circondati da trofei di donne appese o lasciate a morire nelle carriole.
La direzione di Stefano Montanari è energica e sempre scattante, vivace, perfetta per la prima parte dello spettacolo perché lo accompagna senza mai sdilinquirsi, soprattutto nei recitativi al fortepiano, e incalza i personaggi chiudendoli in una rete musicale che continuamente li determina e li dissolve. Peccato che nel finale tragico le intenzioni musicali non cambino: forse il cupo notturno avrebbe avuto bisogno di sonorità più ovattate, oltre che di un po’ più di “freno motore”.
Buona prova del cast, tutti credibili e disponibili a fare delle Nozze diverse da tutte le altre, centrate sul presente per cercare di capirlo un po’ di più, il presente. Voci non grandi ma curate quelle maschili, in particolare il Conte di Andrey Zhilikhovsky e il Figaro di Simone Del Savio – che sostituiva Vito Priante. Quanto alle voci femminili, sono magnifiche le variazioni nelle arie della Contessa di Federica Lombardi e del Cherubino di Miriam Albano, dal canto morbido e obnubilante la prima, sicuro e teatrale la seconda. Dolcemente remissiva la Susanna di Benedetta Torre.