“Styx” dell’austriaco Wolfgang Fischer, premiato all’ultimo Festival di Berlino, pone la protagonista (Susanne Wolff) e anche il pubblico di fronte a un interrogativo drammatico. Se navigando in mezzo all’Atlantico ci si imbatte in una nave di migranti in procinto di affondare, si deve intervenire pur sapendo di non avere mezzi e autorizzazioni per farlo? La dottoressa Rieke, velista solitaria, sfida questo dilemma e salva un ragazzo. Ma i soccorsi arriveranno troppo tardi per quasi tutti gli altri
Rieke (Susanne Wolff) è una dottoressa tedesca di pronto soccorso che lavora lontano dal suo paese, e nella vita crede di averle viste tutte in fatto di vite in pericolo e casi disperati. Così, quando decide di prendersi una pausa da quel compito stressante e partire da Gibilterra con la sua bellissima barca per raggiungere l’isola di Asuncion, a metà strada, nell’Atlantico, tra Africa e Sud America, piccolo, incontaminato paradiso di solitudine e natura, tutto si aspetterebbe tranne la terribile prova, etica, umana e anche marinara, che l’aspetta. Dopo una brutta tempesta, che già ne ha messo alla prova le capacità, si imbatte infatti in un peschereccio alla deriva in mezzo all’oceano e decisamente male in arnese, dove almeno un centinaio di profughi africani, in evidente e grave difficoltà, hanno bisogno di aiuto immediato.
Alcuni di loro provano a raggiungerla, ma solo un giovane ragazzo, Kingsley (Gedion Oduor Wakesa, che viene da una baraccopoli di Nairobi) ce la fa. Insieme chiamano soccorsi che non sembrano impazienti di arrivare, e mentre la situazione (a tiro di binocolo) si fa sempre più tragica anche tra loro nasce il conflitto. Lei sa di non poter risolvere il problema con la sua piccola imbarcazione, ma sa anche che aiutare subito quegli uomini, quelle donne e quei bambini che rischiano di affogare è una questione di ore. E il ragazzo, separato forse da altri parenti che non hanno avuto la sua stessa fortuna, a tutti i costi vuol convincerla a tornare accanto a quel naviglio che sta affondando. L’arrivo finale delle navi di soccorso non riuscirà a salvare che un numero esiguo di persone.
Styx (ovvero Stige, il fiume che nell’antica cultura greca conduceva agli inferi e così nella Divina Commedia dantesca), titolo del film del 48enne regista viennese Wolfgang Fischer, è ovviamente la metafora di un tragitto verso la morte e l’inferno, il luogo della separazione tra vivi e morti. E la dottoressa Rieke sembrerebbe candidarsi a novella Caronte, con la sua indecisione fatale nel portare soccorso ai naufraghi, impresa forse peraltro per lei neanche possibile. Ma il cambio di passo, lo stacco netto tra le due parti del film, la prima all’apparenza serena e quasi turistica, la seconda attanagliata dal doppio obbligo di coscienza che lei sente su di sé (come essere umano e come dottoressa ancor di più) non si mescolano al meglio, anche se le prime, affascinanti immagini di un’avventura estrema sembrano già celare qualcosa di più drammatico. Che diventa orribile quando finalmente la dottoressa, convinta che nessuno verrà in tempo a soccorrere lei ma soprattutto i naufraghi, sceglie di tornare verso il relitto e perlustrarlo, trovando quasi solo i segni di una morte spaventosa perché evitabile, quindi ingiusta. Qualcosa che, appunto, al pronto soccorso dove lavora, cerca ogni giorni di evitare.
La sua sfida sovrumana e solitaria al male del mondo, al cinismo o all’incapacità di chi potrebbe rimediare, si colloca in un film dove nella seconda parte la tensione sale anche nel quasi impossibile rapporto con Kingsley. E in cui la solitudine assoluta, l’assenza di dialoghi a parte i messaggi via radio che Rieke manda e riceve con sempre maggiore frustrazione, elimina qualsiasi elemento estraneo alle questioni strettamente umane, ponendo il tema del soccorso in una prospettiva abbastanza originale dal punto di vista cinematografico. Lei si chiede come, da sola, può, anzi deve comunque far fronte a uno stato di crisi che riguarda tante persone e non riesce, non può trovare risposte da altri se non da se stessa. Perché di fronte all’immediata concretezza della morte di molte persone anche il limite tra giusto e sbagliato in astratto, o ancor più tra legale e illegale, si pone in modo molto particolare. Un punto a favore del film è certamente la capacità di rimandare direttamente allo spettatore, verrebbe quasi da dire nella sua realtà quotidiana, dilemmi di questo tipo. Osserva il regista che una donna in mare aperto è una buona metafora del nostro mondo disumanizzato, silente, confuso: “Da sola Rike non riesce a risolvere il problema, pur con tutte le competenze e le conoscenze necessarie, e questo vale anche per i vari paesi europei: soltanto se restiamo uniti possiamo trovare una soluzione”.
Styx, passato nella sezione Panorama all’ultimo Festival di Berlino, dove il suo valore è stato riconosciuto da più di un premio, soffre forse un po’ di una sua uniformità narrativa, di una mancanza, a tratti, di crescendo drammatico. Perché in qualche modo è chiaro fin da subito, quando si vede la barca dei migranti a poca distanza dalla protagonista, e poco dopo i primi contatti via radio, che nessuno tra chi potrebbe intervenire in modo efficace sembra volere o potere arrivare in fretta quanto la situazione richiede. E che i drammi e i dilemmi della protagonista non hanno e non troveranno luogo e modo di essere affrontati. Magari anche per arrivare alla conclusione che non c’è soluzione possibile. Girato quasi interamente in mare aperto, per 40 giorni su una barca da 12 metri in cui la troupe doveva stivarsi sottocoperta per nascondersi durante le riprese, provando in piccolissimo i disagi di chi affronta un viaggio così non per far cinema ma per salvare la pelle, è un film in cui tutto è naturale, autentico, e nulla è affidato agli effetti speciali. Compresa la tempesta che darà avvio alla vera azione.
Styx, di Wolfgang Fischer, con Susanne Wolff, Gedion Oduor Wakesa, Alexander Beyer, Inga Birkenfeld.