“Exodus” di Ridley Scott trasforma la guida degli ebrei (Christian Bale) in un leader politico-militare. Pieno di dubbi e quasi privo di spessore religioso
Mosè è una figura profetica, appartenente alle Sacre Scritture delle tre religioni abramitiche: ebraica, cristiana e islamica. Le sue vicende sono raccontate nella Torah, nell’Antico Testamento della Bibbia cristiana e si parla di lui nel Corano. Nell’Esodo e nel Deuteronomio, i due libri del Pentateuco, troviamo Mosè, scampato allo sterminio dei bambini in Egitto, allevato (lui, ebreo) nella stessa casa del Faraone, che poi fugge per aver ucciso un egiziano che fustigava uno schiavo. Da qui il ritorno di Mosè al suo popolo, l’incontro con Dio, le richieste al Faraone di lasciare libero Israele, il viaggio verso la Terra Promessa e la scrittura delle Tavole della Legge.
Dopo due versioni cinematografiche di Cecil De Mille sui Dieci Comandamenti (memorabile quella con Charlton Heston, del 1956), lo sceneggiato di Gianfranco de Bosio con Burt Lancaster (Moses the Lawgiver, 1974), varie fiction, un ottimo film tv in due puntate con Ben Kingsley (Moses, 1995) e un cartone animato della Dreamworks (Il principe d’Egitto, 1998), è ora il turno di Ridley Scott, regista da kolossal (Blade Runner, Il gladiatore, Prometeus, Exodus – Dei e re) cui non poteva sfuggire un soggetto così importante per respiro sociale, culturale e antropologico.
La versione di Exodus è molto differente rispetto al testo biblico, e propone un’interpretazione di uno dei patriarchi dell’ebraismo del tutto singolare. Mosè, cui dà volto Christian Bale (Il cavaliere oscuro, American Hustle) è rappresentato come un condottiero, assai avvezzo alle materie politiche e militari, esiliato dal faraone-fratello (interpretato da un bravissimo Joel Edgerton) più per il suo sangue che per aver difeso un ebreo inerme dalla violenza. Ed è mosso a battersi per la salvezza del suo popolo, prima che da una motivazione morale da un’accettazione, peraltro mal risolta, delle proprie origini, che lo porta a dubitare dell’esistenza di Dio. Il quale gli si rivela, durante il viaggio sull’Oreb, come un bambino bellicoso e autoritario, immagine, per i più scettici, frutto di un’allucinazione causata da un colpo alla testa dovuto a una caduta durante il viaggio.
La liberazione, suscitata dalle parole incalzanti di un dio-capriccioso dai tratti molto ellenistici, assume così le forme di un addestramento degli schiavi ebrei finalizzato al conflitto armato contro il Faraone, opera di un Mosè soldato e fine conoscitore dei segreti del potere. Scompaiono le richieste fatte vis-a-vis al Faraone, col fratello Aronne che fa da tramite per i suoi impacci di lingua, i prodigi divini, le magie egiziane; e le Sette Piaghe sembrano quasi tutte correlate ad un periodo di smottamento del Nilo, mentre è una bassa marea temporanea del Mar Rosso a favorire il passaggio del popolo d’Israele.
A parte le verità storiche legate ai fatti citati dalla Bibbia, messe più volte in discussione, ne esce l’immagine di un “leader”politico mosso dall’idea ossessiva della liberazione – peraltro senza esserne davvero convinto – e guidato da un Dio privato e quasi “paranormale”. Un condottiero paragonabile a tanti altri grandi capi di movimenti indipendentisti della Storia, protagonista di una vicenda che potrebbe svolgersi in qualsiasi altra epoca storica: poichè manca proprio quell’aspetto essenziale che rende l’Esodo diverso da tanti altri racconti, l’importanza religiosa e culturale, assai prima che militare, di un caposaldo di un’intera tradizione, quella che si evince dal testo biblico.
Se già Noah di Aronofsky aveva tracciato un confine molto labile tra figure religiose, narrativa, mitologia e spettacolo, Exodus contribuisce ulteriormente a trasformare nuovi e antichi racconti in strumenti arbitrari di spettacolarizzazione, pacchetti di intrattenimento in cui le vicende sono solo un attraente pretesto per costruzioni visive pensate per il botteghino.
Nulla da togliere alla bravura di Scott nel gestire comparse, effetti speciali e scenografie, realizzate con assi e mattoni in studio, ma Hollywood forse dovrebbe sfoggiare più coraggio e chiarezza. Non bastano le poche, velatissime battute critiche sul conflitto israelo-palestinese per farne un film politico, nè qualche accenno di reinterpretazione storica per renderla un’opera di valore divulgativo, e ancor più lontana è l’dea di un racconto di valore religioso. Il mix pare più votato a un grande fasto visivo, e non risponde esaurientemente ai grandi quesiti essenziali, piegando l’aspetto filologico-religioso a un più contemporaneo scalpore eroico-politico.