Al Mudec la mostra non autorizzata su Banksy. Quando la street art entra dentro alle mura.
Il Mudec con un atto non autorizzato ha esposto per la prima volta in Italia una retrospettiva su Banksy, uno fra i maggiori esponenti della Street Art contemporanea, avvolto dall’anonimato e che scrive illegalmente su muri di proprietà altrui.
Ha usato il suo stesso linguaggio, appropriandosi di strumenti legati a contesti outdoor per comunicare qualcosa che, nonostante regolarizzato da un biglietto di ingresso, rimane forte. Che sia la rivincita dei musei, catturare la fugacità non autorizzata del graffitismo urbano? Oppure dovremmo considerare la cosa come un ossimoro, un totale flop?
In effetti ci si trova di fronte a svariate contraddizioni mentre si osserva la mostra: si parla di opposizione alle guerre, denuncia al consumismo, al possesso, al controllo. Tutte cose di cui il mercato dell’arte è largamente colpevole. E fa ironicamente sorridere che ci siano opere, forti come pugni dati allo stomaco del sistema socio-economico, prestati alla mostra da collezionisti privati.
“Have a Nice Day”, un esempio fra tanti, ha una potenza immediata e concettuale altissima. Si tratta di una serigrafia in edizione limitata, che la didascalia esplicativa dichiara provenire da collezione privata. L’arte è stata colpita, esattamente come lo siamo noi, che osserviamo un plotone militare schierato, pronto per combattere, che ci augura una buona giornata con degli smile gialli al posto delle facce, come le emoticon che ci mandiamo ogni mattina, prima di andare a combattere le nostre battaglie quotidiane, in ufficio, in giro, nelle sfere private.
La cosa che fa riflettere è che l’opera, ormai assodata dalla critica come di enorme valore, appartenga a un privato: non più in strada, non più davanti a una massa. Il potere ha comprato l’azione, dimostrando ancora una volta che Banksy ha ragione: tranne i bambini siamo tutti un po’ colpevoli, perché cerchiamo compiacimento e privati profitti, ricerchiamo un momento di gloria in cui sentirci eletti. Concetti ben lontani dai muri pittati, silenziosi megafoni urbani.
E poco più in là, ci aspetta Napalm. Chi scattò la foto della ragazzina ustionata dal raid durante la guerra in Vietnam (il fotografo vietnamita Huỳnh Công “Nick” Út), tornò a casa propria e vinse il premio Pulitzer; così chi osserva l’opera non può restare indifferente dal messaggio che allerta, scuote e impressiona, ma solo per il tempo dell’osservazione, come quando si scorrono le notizie sui social, perché poi di fatto nulla cambia nel personale presente; Banksy ci anestetizza in una nuvola di realtà posticcia, specchio del contemporaneo quotidiano che ci cresce e nutre sin dall’infanzia e non a caso la ragazzina disperata, in netto contrasto è tenuta per mano dalle mascotte di Disney e di Mc Donald’s.
L’esposizione aiuta facilmente il visitatore alla comprensione dell’arte urbana, accennandone le origini e prosegue altrettanto piacevolmente alla comprensione dei concetti cari all’anonimo eppur famosissimo street artist, quali ad esempio la figura metaforica del topo, alter ego dei writers come lui: i ratti esistono senza permesso, vivono nei luoghi più infimi, bui e sporchi, eppure sono esempio di collettività e forza intelligente.
Tuttavia la mostra rimpicciolisce davanti alla potenza dei messaggi delle opere. Ci si dimentica di aver contribuito al sistema, pagando un biglietto e ci si sente solo chiamati a prese di coscienza sociali che commuovono profondamente e strattonano le nostre consapevolezze a sferzate di tagliente ironia e sottili legami concettuali.
La mostra mantiene una poetica tattile, che eleva l’umanità come una catarsi, attraverso finestre di disumanità. Splendido come una lama sottile di luce che arriva al petto, il video realizzato per sensibilizzare sulla situazione fra Palestina e Israele, sulla striscia di Gaza. Fa riflettere la dualità del concetto di muro. Un muro per dividere, un muro per esprimersi, come insegna la street art.
Il messaggio passa, oltre i muri, oltre le piazze pubbliche. Passa anche se filtrato dalle convenzioni dell’istituzione museale. Ciò che conta è che ci sia ancora una parte di umanità etica, libera da imposizioni, con mente e anima fresca quanto gli occhi dei due bambini, che giocano con un cartello che vieta il gioco della palla, semplicemente perché nella loro fantasia ci vedono comunque una palla.
Ciò che conta è come ci si sente dopo, quando si esce dalla mostra e si torna al mondo reale, vero luogo espositivo per Banksy. Come ci si sente a riscoprirsi impreparati di fronte alla quotidianità, dopo.
“A wall is a very big weapon”, Banksy.
A Visual Protest. The Art of Banksy, al Mudec dal 21 novembre 2018 al 14 aprile 2019.