Il bellissimo film pensato, scritto, montato e diretto dal regista messicano, ambientato nel 1971 a Colonia Roma, quartiere altoborghese della capitale, è stato l’ultimo Leone d’Oro alla Mostra del Cinema e da oggi si può vederlo solo sulla piattaforma Netflix. Una straordinaria protagonista (la “non attrice” Yalitza Aparicio) è al centro di un serbatoio emozionale di nostalgia, con altissimo potenziale di commozione ma senza retorica, sullo sfondo della repressione del governo contro gli studenti
È finita ieri la breve carriera nelle sale di Roma , il film bellissimo pensato, scritto, montato e diretto da Alfonso Cuaròn, prodotto da Netflix, che lo metterà sulla sua piattaforma il 14 dicembre. È nota la disputa tra gli esercenti italiani e il gruppo americano che sta producendo il meglio su piazza (vedetevi il western dei Coen e prenotate il nuovo Scorsese) ma deve combattere contro lo stile vintage dell’esercizio italiano. Eppure il film sul caso Cucchi Sulla mia pelle è andato bene nei cinema, pur essendo nello stesso tempo visibile sulla piattaforma americana.
Di Roma non si hanno dati sugli incassi delle 50-60 sale che eroicamente lo hanno proiettato, sfidando il potere ricattatorio della grande distribuzione, ma speriamo che il Leone d’oro di Cuaròn (Venezia gli porta bene, poi ha vinto anche due Oscar con Gravity) invogli il grande pubblico a farsi conquistare da questo amarcord struggente in bianco e nero di una famiglia alto borghese nel quartiere Colonia Roma a Città del Messico.
Siamo nel 1971, l’anno in cui il reazionario presidente Echeverrìa comanda la strage degli oppositori del regime, soprattutto studenti, il 10 giugno, scritturando per la violenza fascista i sottoproletari senza alcuna speranza. Le storie si intrecciano, le vediamo con gli occhi di uno dei ragazzini di casa in cui non è difficile riconoscere il futuro regista e negli occhi dell’amatissima Tata Cleo (straordinaria non attrice, Yalitza Aparicio) che flirta con un aspirante sovranista.
I destini si intrecciano, i genitori si dividono e anche la colf ha problemi: sembra tale e quale la cameriera di un vecchio amabile film di Luciano Emmer, Camilla, quando eravamo nella piccola borghesia alla Gabriele Ferzetti. Il film di Cuaron è dolcemente intenso, intriso di voglia di cinema (è una chicca scoprire che l’idea di Gravity gli venne da un film di fantascienza visto quell’anno, in italiano era Abbandonati nello spazio) e realizzato con dolcezza di piani sequenza, camera a mano, lenti panoramiche e una misura del mascherino dello schermo di 16:9, come allora.
La forza del regista, uno dei tre che ha conquistato il mercato americano con i connazionali Alejandro González Iñárritu e Benicio Del Toro, è che il suo sguardo è rivolto all’interno della casa, ai movimenti quotidiani, alla manovra dell’auto del padre quando torna, alle sospensioni dei rapporti: è un modo bellissimo di raccontare che sarebbe stupido definire “fuori moda” o solo per i critici, perché questo, invece, è un film popolare, che crede nel racconto della vita che si fa cinema e viceversa, attraverso illusioni e delusioni, piccole e grandi odissee. Molte scene cult, tra cui la gita al mare verso la fine, serbatoio emozionale con un altissimo potenziale di commozione ma senza retorica.
Roma, di Alfonso Cuaron, con Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Marco Graf, Daniela Demesa, Diego Cortina Autrey