L’Attila di Livermore e Chailly inaugura la Scala, convincendo il pubblico e regalando anche, con il lungo applauso a Mattarella e non solo, un momento di risveglio civile. Raffinata la direzione, interpreti – Abdrazakov e Hernández su tutti – all’altezza di una sfida sicuramente vinta
Unni, Eruli e Ostrogoti hanno invaso la Scala ieri sera per l’inaugurazione di stagione. No, Salvini e i suoi non c’entrano; a dire il vero il ministro non era nemmeno in teatro. Si dava Attila di Verdi, la sua nona opera, giovanile se si è giovani a 32 anni; di certo non ancora matura, “di galera”, per dirla come si è sempre detto con un po’ di sufficienza, che a questo punto si può ritenere superata alla seconda inaugurazione verdiana di Riccardo Chailly – la prima è stata Giovanna d’Arco, tre anni fa, ancora più “di galera”.
Quasi quindici minuti di applausi, trionfo per il protagonista Ildar Abdrazakov e contestazioni trascurabili, solo un po’ di rumore di fondo all’uscita del regista Davide Livermore. Insomma è andata bene, con in più l’emozione di un momento di risveglio civile, morale e politico all’ingresso del presidente Mattarella.
Anche se, va detto, l’Attila di quest’apertura di politico non aveva granché. Il teatro di guerra pensato da Livermore, con atmosfera da generica occupazione novecentesca, descrive un mondo in rovina, con gli invasori e gli invasati che ogni periodo di decadenza si porta dietro. Centro gravitazionale della scena è un ponte che riunisce varie epoche architettoniche, e che si spezza simbolicamente per poi vagare sul palco senza più niente da collegare. È questo un po’ il problema dello spettacolo: tutto tende al didascalico, col rischio di rendere innocue anche le scene che vorrebbero essere più disturbanti. Compresa l’apparizione di Papa Leone, visivamente molto suggestiva, con l’affresco di Raffaello che ispirò Verdi (è l’Incontro di Leone Magno con Attila delle Stanze Vaticane) che passa dalle due dimensioni del gigantesco led wall sul fondo alle tre di un tableau vivant, cavallo compreso. Meglio allora il banchetto tipo Portiere di notte, con sacrileghe adorazioni pagane e ancora più sacrileghe bretelle e gorgiere per suggerire il torbido degli Unni. Ma alla fine l’impressione è che Livermore si sia accontentato di uno spettacolo senz’altro fatto al meglio – le scene imponenti dello studio Giò Forma, i costumi belli e coraggiosi di Gianluca Falaschi –, ma decorativo, senza una lettura che tenga insieme il complicato meccanismo della scena.
A dire il vero nemmeno l’opera si tiene insieme da sola: il meglio di Attila sta più in quello che anticipa che in quello che è. I momenti ispirati in partitura non sono certo pochi: dal cupo preludio, alla musica di tempesta, la romanza di Odabella, il monologo allucinato di Attila, il concertato del secondo atto, il quartetto finale, pagine di grande musica a volte sovrastate da un congegno convenzionale tutto di cabalette. Quanto a struttura, forse Giovanna d’Arco era più sperimentale. Oltre alla dimensione sovrannaturale, che già nel Macbeth dell’anno dopo diventerà nucleo drammatico, l’opera affascina per la tormentata evoluzione dei personaggi: ovviamente non Ezio o Foresto, che di psicologico non hanno proprio nulla, ma Odabella e Attila. La prima per il processo di “de valchirizzazione” che segue atto dopo atto, come accadrà poi per la Lady e, in un certo senso, anche per Violetta. Il secondo per il dramma che ha sempre nella voce, per i fantasmi che gli si agitano dentro, come poi Macbeth fino a Otello.
Nella sua direzione, Chailly è alla costante ricerca di raffinatezze, che effettivamente riesce a trovare persino nei passaggi più impensabili, ad esempio nei tempi di mezzo delle scene, dove cova in orchestra un suono materico, antiromantico, come «vento in caverna» direbbe Attila. Ovviamente le raffinatezze le ottiene anche nei passaggi pensabili, come nell’accompagnamento della romanza di Odabella, dove il corno inglese fa meraviglie, o nell’aria di Foresto nata per la Scala, “O dolore! Ed io vivea”, dove è l’arpa che fa meraviglie. Vetta della direzione è senz’altro la scena del banchetto, scritta al limite del Kitsch, in cui Chailly riesce a ottenere una sonorità di una limpidezza che ammalia, quasi stravinskiana. Quel che manca alla direzione è un po’ di incandescenza nelle tante strette disseminate nell’opera, che vengono tutte dilatate fino quasi a perdere le differenze con i cantabili.
Quanto al cast, Abdrazakov è probabilmente il miglior Attila che si possa desiderare: la voce non sarà grande, ma è autorevole, bellissima, sempre morbida, e non c’è intenzione che non sia musicale, che non comunichi un messaggio persino etico nel mondo in decadenza in cui si ritrova a cantare: non è solo la solita bellezza che salverà il mondo, ma anche la morale, in questo caso quella di un barbaro.
Saioa Hernández arriva in scena che è Anna Magnani e se ne va da replicante alla Blade Runner, comincia cauta, corretta, ma non guerriera, poi convince tutti con “Oh! nel fuggente nuvolo”. George Petean perde nel duetto con Abdrazakov, ma si riprende nella sua scena del secondo atto, cantata con grande eleganza. Qualità che manca al Foresto di Fabio Sartori, forse il più debole del quartetto vocale. Ottimi i comprimari: l’Uldino di Francesco Pittari, anche bravo attore, e il Papa Leone di Gianluca Buratto.