Dopo “Basquiat” un altro ritratto d’artista, ancor più maledetto stavolta, per il pittore/regista statunitense, che racconta i due anni cruciali della maestro dei “Girasoli”: Vincent, cui Willem Dafoe dà un volto di forte impatto, dipinge e soffre nell’inverno di una Provenza fredda, tra l’ostilità di troppi, colleghi compresi e minato da crisi psicotiche sempre più gravi
Vincent Van Gogh (personaggio principale del nuovo film di Julian Schnabel) lasciò Parigi per Arles nel febbraio del 1888 alla ricerca di paesaggi assolati, vegetazione rigogliosa e luce mediterranea, ma purtroppo scoprì che anche nel sud della Francia l’inverno poteva essere rigido e trasformare campi e colline in luoghi gelidi e inospitali. All’inizio del film lo vediamo così vagare in mezzo a tetre distese di girasoli, in una campagna piatta e triste, abitata da pochi esseri umani e quasi del tutto priva di colori.
Ma Vincent (con il volto affilato di Willem Dafoe, Coppa Volpi alla Mostra di Venezia 2018 per questo ruolo) insiste, non si lascia scoraggiare e continua a mettere un piede dopo l’altro: e cammina e corre, andando incontro all’estate e a una nuova fase della sua vita. Un’estate smagliante di colori che diventerà la prima fonte della sua arte e farà letteralmente fiorire il suo talento, con risultati che ancora oggi appaiono incredibili.
Van Gogh morirà due anni dopo, a soli trentasette anni, e in quella manciata di mesi realizzerà gran parte delle sue opere più note, quelle che hanno cambiato per sempre la storia dell’arte. Lavori portati a termine di corsa, in preda a una vera e propria furia, una tela dopo l’altra, con quello stile personalissimo e febbrile che i suoi contemporanei trovavano in gran parte indigesto. Sono quadri pieni di vita e impregnati di dolore, realizzati in bilico sul baratro, fra un crollo nervoso e un ricovero in ospedale, tanti momenti di buio disperato e altrettanti di euforica speranza. E di incontri, tra cui quello fondamentale con Paul Gauguin, per il quale Vincent manifestò un’immensa stima, purtroppo ben poco ricambiata. E l’amicizia fra i due, come è noto, ebbe un epilogo decisamente drammatico, quando Van Gogh – probabilmente in un momento di crisi psicotica – non trovò di meglio per vendicarsi dell’amico che aveva deciso di partire, e quindi di abbandonarlo, di tagliarsi un orecchio e farglielo recapitare come un macabro dono.
Julian Schnabel mette in scena gli ultimi due anni di vita di Vincent Van Gogh e non ci racconta niente che già non sapessimo di questo artista immenso, abitato da una sovrumana energia creativa, capace di vedere ciò che tutti gli altri (artisti compresi) non sapevano all’epoca nemmeno immaginare, ma costretto a vivere nel corpo infelice di un uomo nevrotico, disperatamente fragile, condannato a una solitudine assoluta, senza possibilità di redenzione. Un artista in guerra con un mondo che non lo capisce e guarda con sospetto i suoi quadri, e con ostilità i suoi comportamenti bizzarri. Un uomo soprattutto in guerra con sé stesso, costretto a una lotta quotidiana con i fantasmi della propria mente e la parte in ombra di un universo complesso e oscuro, che a noi è arrivato fortunatamente sotto forma di tavolozza dai colori sgargianti.
Schnabel è un artista certamente meno in guerra con il mondo, baciato dal successo già negli anni Ottanta, a poco più di trent’anni, capace di conquistarsi premi e riconoscimenti poi anche come regista: eppure è evidentemente attratto dal mistero doloroso della creazione artistica soprattutto quando si combina con l’incapacità di venire a patti con gli aspetti più prosaici della vita quotidiana. Il suo primo film, infatti, non esente da ingenuità stereotipate sul rapporto fra arte e follia, lo aveva dedicato alla fulminea e seducente parabola di Basquiat. Qui ci riprova con risultati decisamente più interessanti, perché non tenta neanche di svelare l’enigma del talento artistico, magari cercando di entrare nella testa e negli occhi di Van Gogh, ma si limita a descrivere un uomo e il suo tempo.
Un uomo che dipingeva i fiori perché i fiori veri appassiscono in fretta, e disegnarli è l’unico modo per farli sopravvivere, e contrastare così la distruttiva erosione del tempo. Un uomo che aveva un disperato bisogno d’amore e proprio per questo finiva con l’allontanare tutti da sé. Un artista messianicamente convinto di dover donare al mondo i frutti del talento che il buon Dio gli aveva concesso. Peccato che il mondo non sapesse allora che farsene, dei suoi quadri magmatici e ardenti!
Certo, quei Girasoli tanto vituperati dai suoi contemporanei sono diventati un secolo dopo oggetti globali del desiderio, e per comprarli sono state pagate cifre da record, ma il mistero è rimasto tale.
E allora ben venga il tentativo di Schnabel di raccontare – con l’aiuto di un mostro sacro della sceneggiatura come Jean-Claude Carrière e di un attore in stato di grazia come Willem Dafoe – semplicemente un uomo che cerca faticosamente un posto (e una postura) nel mondo, una sorta di cavaliere errante, un’anima tormentata incapace di trovare un angolo di pace, dove finalmente fermarsi e riposare. Una delle intuizioni migliori di Schnabel è infatti mostrare questo Van Gogh che cammina incessantemente, nel buio e nella luce, nella gioia e nella disperazione, nel dubbio e nella fede. E nel futuro, naturalmente.
Van Gogh, di Julian Schnabel, con Willem Dafoe, Mads Mikkelsen, Rupert Friend, Mathieu Amalric, Oscar Isaac, Emmanuelle Seigner, Niels Arestrup, Vincent Perez, Alexandra Stewart