La mostra-evento d’arte antica di questa stagione è certamente la grande esposizione dedicata ad Andrea Mantegna e Giovanni Bellini, organizzata in due tappe tra la National Gallery di Londra e la Gemäldegalerie di Berlino. Una recensione e qualche riflessione.
Tra riviste, quotidiani e siti specializzati, si è fatto un gran parlare, nei mesi passati, sulla grande mostra-evento dedicata ad Andrea Mantegna e Giovanni Bellini, organizzata dalla National Gallery di Londra (fino al 27 gennaio) e dalla Gemäldegalerie di Berlino (dove l’esposizione approderà dal 1 marzo e fino al 30 giugno).
A dominare nei commenti, almeno in Italia, era un senso (neppure troppo malcelato) di invidia e rimpianto. Una mostra così, di così ampi respiro e ambizione, la si può fare solo all’estero, mentre i musei italiani languiscono tra perenni carenze di personale e affannosi inseguimenti di fondi: questo il sottotesto, più o meno esplicito, che dettava il tono delle entusiastiche presentazioni.
E non mancano le ragioni per un atteggiamento simile: una rassegna di questa portata, con prestiti prestigiosi da tutto il mondo, è oggi impensabile per qualsiasi istituzione italiana, a maggior ragione se pubblica. Servono soldi, serve una macchina organizzativa dedicata, servono spazi adeguati, serve una programmazione a lungo respiro che i musei italiani, oggi, difficilmente sono in grado di mettere in campo.
E buona pace se la storia che si andava a raccontare – la storia dell’incontro-confronto tra Mantegna e Bellini, il primo cognato del secondo per averne sposato nel 1453 la sorella Nicolosia – è saldamente radicata tra Padova, dove Andrea si afferma rapidamente negli anni che precedono immediatamente il 1450, e Venezia, dove il secondo si forma nella bottega di famiglia del padre Jacopo. Non è certo una novità: basta ricordare che nel 2011 la stessa National Gallery aveva organizzato, a Londra, un’importante mostra esplicitamente dedicata a Leonardo da Vinci: painter at the court of Milan.
Fatto salvo il sacrosanto impeto a reclamare investimenti – in termini di soldi, di personale, di formazione – perché i musei pubblici italiani possano valorizzare collezioni e competenze, che certo non mancano, come accade nei maggiori musei in Europa, la discussione rischia però così di rimanere al livello del rimpianto per le glorie locali sfruttate all’estero: quasi a traslare sulla storia dell’arte antica i lutti odierni per i cervelli in fuga o a investire gli innocenti Mantegna e Bellini del ruolo di porta-bandiera nazionali, con strizzata d’occhio all’incombente retorica sovranista.
Per non confinarsi in una simile prospettiva, questa sì, provinciale, sarà piuttosto il caso di ragionare a fondo sulla rassegna londinese-berlinese, sorpassando l’aura dell’“evento irripetibile” e il dispiegamento di risorse: com’era, insomma, alla verifica dei fatti, questa mostra su Mantegna e Bellini?
Brutta. E ancor più sorprendentemente brutta, considerata la straordinaria qualità dei pezzi convocati per l’occasione: una raccolta di capolavori, giunti da tutto il mondo, scelti fior da fiore nel catalogo di due dei massimi artisti della tradizione occidentale.
Per chi come me, per ragioni anagrafiche, ha mancato le ultime grandi rassegne sugli artisti (la mostra magnifica su Mantegna al Louvre nel 2008 e, a maggior ragione, quella di Londra e New York del 1992, uno degli ultimi fuochi del mecenatismo Olivetti; la mostra su Bellini alle Scuderie del Quirinale, sempre nel 2008), l’occasione era preziosa per ammirare, in un colpo solo, opere di non scontata accessibilità: mi si perdonerà il riferimento soggettivo, ma mai avevo visto dal vivo lo strepitoso Mantegna di Copenaghen, che spiega a uno sguardo, con quella lastra di porfido illusionisticamente dipinta, la passione dell’artista per i marmi e le pietre; o, sempre di Mantegna, il San Girolamo giovanile che arriva fin da San Paolo e dove il pittore brucia in un colpo la propria formazione compiuta nella sulfurea factory di Francesco Squarcione, all’ombra dei bronzi padovani del fiorentino Donatello; o due opere decisive per comprendere la vecchiezza di Bellini come il Festino degli Dei di Washington (con gli inserti indimenticabili di Tiziano nel paesaggio) o l’Ebrezza di Noè di Besançon, dove la scodella sul primo piano pare già Velasquez.
Eppure, girando nelle sale, sotterranee e affollatissime, della Sainsbury Wing, si toccava con mano quanto non bastino i capolavori per fare una buona mostra: come non bastano le scene madri per costruire un buon film. Servono ritmi e pause calibrati, serve una drammaturgia solida che guidi il percorso, serve talento per montare confronti tra opere che si rivelino portatori di senso agli occhi di un visitatore che deve essere messo nelle condizioni di comprenderli.
Nulla di tutto questo accade nella mostra su Mantegna e Bellini dove l’affollarsi di capolavori finisce, paradossalmente, per risultare soffocante e inibire la fruizione di opere dalla qualità pure tanto eccelsa: che sollievo, usciti dalla mostra, girare per le sale calibrate (e gratuite) della collezione permanente, o fare un’incursione nella parallela bell’esposizione dedicata alla ritrattistica di Lotto.
Tra i Mantegna e i Bellini, giunti da Washington e da Parigi, da Vienna e da Madrid, da Milano e da Venezia, si faticava invece a cogliere il senso della storia, e ci si rabbuiava nel vedere sprecate occasioni preziose, e quasi irripetibili. Un caso per tutti: nel 1505, gli aristocratici Cornaro di Venezia commissionano a Mantegna, ormai anziano, un fregio monocromo con episodi di storia romana. Ma l’artista, dopo aver dipinto un’Introduzione del culto di Cibele a Roma (un dettaglio è l’immagine di copertina), muore nel 1506 senza avere compiuto l’opera. A raccogliere la commissione sarà allora il cognato Bellini, che, molto meno a proprio agio in quella pittura archeologica e antiquaria, dipinge, a pendant e a modo suo, una Continenza di Scipione, oggi a Washington. I due pezzi, meritoriamente riuniti nella stessa sala, sono però esposti uno sopra l’altro: vanificando la possibilità di percepire il fregio secondo la sua originaria funzione. E il pezzo di Washington, appeso in alto come in una quadreria aristocratica, se ne tornerà dall’altra parte dell’Atlantico senza che sia stato possibile vederlo da vicino, e per bene.
È la stessa struttura complessiva della mostra, peraltro, a risultare incomprensibile. Se davvero si voleva approfondire il tema, tanto affascinante quanto complesso, dei rapporti tra i due giganti, si sarebbe dovuta concentrare l’attenzione sugli anni Cinquanta, per verificare, nel momento di contatto e massima vicinanza tra i due, reciproche influenze, comuni passioni, distanze, chiusure; dialoghi e incomprensioni. Poi sfumare in una lunga ellissi i decenni in cui la distanza tra i rispettivi percorsi è troppo marcata, come si verificava facilmente in mostra, per rendere significativo qualsiasi confronto: diversi i contesti, tra la Mantova della corte gonzaghesca e la repubblicana Venezia, diversi gli incontri; diversi i modi di affrontare il tempo che passa e le nuove generazioni che si affacciano sulla scena. E riprendere, sul finale, come in un commovente epitaffio, la già ricordata impresa Cornaro: con il pittore veneziano che, dopo la morte del cognato, accetta di portare a compimento la commissione rimasta sospesa, in un postumo omaggio che misura però la distanza ormai intercorsa.
Nelle sale della National si oscilla invece tra un abbozzato approccio cronologico e improvvisi accostamenti iconografici, anche saltando attraverso i decenni, con incursioni di altri artisti – in primis Marco Zoppo – difficili da comprendere se non alla luce di un complesso dibattito specialistico di cui non vengono forniti al visitatore neppure i lineamenti: perché, insomma, tra tante opere disponibili, esporre proprio la Testa del Battista di Pesaro, così discussa tra quanti (a partire da Roberto Longhi e Alessandro Conti) la ritengono opera di Bellini e quanti, come i curatori, la credono invece dipinta da Zoppo? E senza neppure fare cenno allo statuto tutt’altro che garantito dell’attribuzione proposta?
Per lunghi tratti si ha invece la sensazione di assistere a due mostre monografiche che procedono parallele, senza alcuna possibilità di dialogo, litigandosi a fatica gli spazi sui muri delle sale. Due mostre monografiche inevitabilmente poco approfondite: come se il criterio fosse esporre qualsiasi prestito si sia riuscito ad ottenere, ricercando a posteriori, alla meno peggio, flebili fili conduttori. Quante possibilità per approfondimenti di cui si avverte il rimpianto. Perché non provare a riflettere sul problema delle influenze fiamminghe nella tanto complessa e ricca giovinezza di Bellini, nel momento cioè del confronto entusiasmante con il cognato? Le collezioni del museo londinese avrebbero facilmente fornito i confronti necessari. O ancora: poteva essere l’occasione per ragionare, in una prospettiva quasi antropologica, sugli inestricabili intrecci tra le dinamiche della bottega e quelle della famiglia. Non è certo un caso, insomma, se Jacopo Bellini dà in sposa la propria figlia a quel giovane artista straniero che, con la crescente fama e con le novità del proprio linguaggio, metteva a rischio la fortuna dell’impresa dinastica, facendone apparire sorpassati stile e repertori.
Tutto questo senza neanche entrare nella discussione dell’impianto scientifico che sorregge (o dovrebbe sorreggere) l’esposizione. Basti dire che un tema tanto delicato, tanto decisivo per le sorti della pittura del Quattrocento in Italia, e tanto discusso negli ultimi anni, avrebbe richiesto un diverso rigore: qui non mancano invece, anche a sfogliare il catalogo, omissioni e sviste, anche su acquisizioni oggettive che dovrebbero contribuire negli studi a un condiviso accrescimento delle conoscenze.
Non sono solo diatribe capziose di specialisti faziosi: alla base dei disaccordi, per fare solo un esempio, c’è la data di nascita di Bellini, per cui mancano riscontri oggettivi insindacabili. Se il pittore veneziano nasce intorno al 1430, è quasi un coetaneo di Mantegna e si può immaginare che la sua storia, dopo la formazione nella bottega familiare, sia già avviata intorno al 1450: ne consegue la possibilità di un dialogo alla pari con il collega, fatto di reciproche ammirazioni e diffidenze, una corsa parallela alla ricerca di stimoli con cui nutrire il proprio talento. Al contrario, se la data di nascita di Bellini si sposta avanti, il dialogo diventa a senso unico, con il più giovane veneziano a seguire, dalla propria prospettiva e alla luce della propria cultura, i raggiungimenti del maestro più anziano. Cambia, come si capisce bene, il senso stesso della storia che si voleva raccontare.
Saremo felici, certo, quando un museo pubblico italiano potrà mettere in campo le risorse dispiegate in un’occasione come questa: ma sarà altrettanto importante avere riflettuto su quale modello di mostra perseguire: su quali siano il senso e lo scopo, quale il metodo che dovrebbero guidare la costruzione di un’esposizione, al di là di retoriche e clamori pubblicitari.
Immagine di copertina: Andrea Mantegna, Introduzione del culto di Cibele a Roma, Londra, National Gallery.