Il Mare in Tasca di Brie a Campo Teatrale

In Teatro

Un uomo solo in teatro parrebbe suggerire a un “monologo”, ma non è così. Il Mare in Tasca  non è un monologo di un attore con…

Un uomo solo in teatro parrebbe suggerire a un “monologo”, ma non è così. Il Mare in Tasca  non è un monologo di un attore con una vasta esperienza alle spalle e un teatro personale da mostrarci in maniera professionale e sicura.

No, Il Mare in Tasca (in scena a Campo Teatrale fino al 3 febbraio) è un dialogo con se stessi. È un “essere detti” Un “ascoltare la propria voce”. Non esiste l’io senza il Tu: se comprendessimo questo avremmo accesso al valore dell’Ospitalità – di cui abbiamo disperatamente bisogno, prima di tutto per ospitare noi stessi. Nello spettacolo, infatti, la “persona-attore” di César Brie – autore/attore alle prese, appunto, con un suo spettacolo di repertorio – si trova sdoppiata e perennemente attraversata da dubbi e incertezze, in dialogo con Dio, di cui si fa all’occorrenza ventriloqua. DIO: Per cosa racconti tu? Non racconti forse per il solo bisogno di sentire?

«Io racconto per il bisogno di sentire…» ripete l’Attore nella “stanza-teatro”, sopra il “pavimento-palco”, ogni cosa è scomposta e ri-arrangiata secondo l’ottica della trasformazione.

Il palco, una sorta di wunderkammer sinistra e popolosa di oggetti e fantocci, a poco a poco diviene scenario sempre più metaforico di un percorso interiore originale ed intimo. Un percorso di pensiero, dove la lucidità di aforismi poetici, a tratti zen, colpisce per la facilità e l’eleganza con cui conduce le frasi verso il paradossale, verso vicoli ciechi, ma in piena luce. Io (l’attore) sono spettatore della tua fame di sincerità, tu (lo spettatore) sei spettatore del mio bisogno di autenticità.

C’è del ritualismo a tratti magico, cadenzato e misurato nei tempi e nei modi: la costruzione di simboli che sono gocce di pensiero; piccoli barlumi di bontà, di speranza, carichi di tristezza e nostalgia:

Oggi, davanti ad un bivio nel mio cammino nel teatro, trovo una tonaca appesa ad un albero. La tonaca è quella di un prete. Il bivio è la mia scelta di tornare a vivere e lavorare in America Latina, una terra così ricca da esportare caffè, mais, calciatori, scienziati, artisti, e così povera da non riuscire a tenerseli. L’albero dal quale pende la tonaca rappresenta questi anni di lavoro ostinato ed esilio volontario. I suoi frutti non sono soltanto le mie opere. Sono anche i miei errori, quello che ho distrutto, le fatiche inutili. 

Cesar Brie esorcizza così il suo ruolo di attore, regista e di uomo. Con generosità, in maniera artistica: l’arte è come la vita, vera come la vita, eppure abita nella porta accanto – recita un verso della pièce. «In un certo senso l’arte vendica la vita» – scriveva Pirandello. Nell’esperienza meta-teatrale di César Brie (L’Attore, l’Uomo e Dio) ci si ritrova in un capovolgimento affascinate ed in una preziosa testimonianza di un uomo di teatro che con la sua recitazione morbida e precisa – e l’inflessione spagnola che rende il suo italiano seducente ed ipnotico – racconta il tentativo arduo di avvicinarsi a “un non detto” ad un “non ancora” che tocca una corda molto nascosta e raggiunge la bellezza più rara, quella cui  Brie pare tenere di più, quella che si ha «quando in apparenza il bello non lo si avverte affatto, ed è solamente una cosa come sono anche le altre».

Sono il primo a stupirsi: i miei fallimenti hanno germogliato. Con quella tonaca e questi frutti ho costruito quest’opera – Cèsar Brie.

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