Covent Garden di Londra, Staatsoper di Monaco, Opéra di Parigi, Staatskapelle di Berlino: sono solo alcuni dei grandi teatri nei quali il compositore è di casa, oltre alla Scala di Milano. E proprio a Milano dove ha presenziato alla prima italiana della sua opera “Daedalus”, eseguita all’Elfo da Sentieri Selvaggi, ha accettato di parlare con Cultweek di Boulez, di labirinti, di supernove e altro
Domanda: c’è un’Italia che piaccia alla Francia, ispiri fiducia alla Germania, seduca la Gran Bretagna e in giro nel mondo ispiri rispetto così, d’emblée? Sì, ma non è l’Italia del denaro, della finanza, della politica – per pietà. Fornelli a parte, è proprio quella che – ricordate – non dà da mangiare: l’Italia della cultura, dell’arte, dell’estro armonico. C’è perfino un’Italia fatta di musica contemporanea, migrante anche lei, che il mondo cerca, paga e applaude.
Tra l’1 e l’8 febbraio, a Nancy, i francesi hanno visto l’opera nuova che Giorgio Battistelli ha composto sui 7 minuti di Stefano Massini, pièce del “drammaturgo” del Piccolo di Milano (Teatro d’Europa), già messa sotto osservazione in Francia e oggi tradotta in musica per l’Opéra de Lorraine, che ha scelto uno dei compositori della povera Italia più stimati all’estero. (Tra parentesi, la scorsa estate alla Fenice di Venezia anche gli italiani hanno potuto sorprendersi per ll Riccardo III di Battistelli nello spettacolo bellissimo di Carsen, sconosciuto perché debuttato ad Anversa 12 anni prima e replicato in Europa 25 volte).
Febbraio 2019, in attesa di rimettere in scena alla Scala, in settembre, il suo Quartett, successo clamoroso degli ultimi anni e spettacolo (della Fura dels Baus) adeguatamente impressionante, Luca Francesconi (17 marzo 1956) è al lavoro su un’opera per Monaco di Baviera (Staatsoper, 2020): commissione che segue la trionfante Trompe-la Mort, da Balzac, all’Opéra di Parigi (marzo 2017) .
Nel mondo, Quartett se la sono strappata di mano da Amsterdam a Los Angeles: l’opera commissionata nel 2011 dalla Scala “di Lissner” e ora ripresa dalla Scala “di Pereira”, ha avuto finora circa 50 repliche in sette produzioni diverse.
Luca, hai capito quale “duende” hai sollecitato per avere queste risposte?
Me lo continuo a chiedere. Qualche riposta ce l’ho, ma la sorpresa è sempre alta. Evidentemente in Quartett ho toccato qualche nervo scoperto. Non so esattamente come sia successo.
E nelle varie produzioni i registi hanno visto in Quartett cose differenti.
In effetti, lo spettacolo che ha debuttato al Covent Garden di Londra virava verso una visione postatomica. Interessante. Ha girato molto, come quello della Scala, in Francia, Germania, Olanda, al festival americano di Spoleto. E continuano ad arrivarmi richieste da ogni parte: Dortmund prepara una nuova produzione e anche Daniel…
Barenboim?
Sì, vuole portarla a Berlino, dirigendola lui.
Regia?
Di Bob Wilson.
Ah.
Sarebbe la chiusura del cerchio: tornare a Berlino, con Wilson che ha lavorato insieme ad Heiner Müller (spettacolo bellissimo, visto anche al Piccolo Teatro nel 2006, con Isabelle Huppert, ndr). Sarei folle di gioia. Adesso sto infatti cercando di fissare un appuntamento con Wilson per questioni non semplici di allestimento dello spazio.
Più vicino a noi, lunedì il festival di Sentieri Selvaggi ha iniziato la stagione 2019 – titolo “DNA” – con un tuo pezzo, Daedalus, in prima italiana; sistemato vicino al Quartetto per la fine del tempo di Messiaen. Anche in Daedalus c’entra Barenboim.
Sì, è una sua commissione per Berlino: una specie di mini concerto per flauto e ensemble da camera. Alla prima il solista era quella specie di extraterrestre che si chiama Emmanuel Pahud… Daniel è un tipo straordinario, non si apre facilmente, ma se appena ti stima, ti chiama a qualunque ora. “Senti, sto mettendo insieme l’ensemble per il tuo pezzo… dunque devo prendere una prima parte della Staatskapelle, il violoncello…, come flauto Pahud ti andrebbe bene? E tu svieni: Emmanuel Pahud, il primo flauto dei Berliner! Un musicista pazzesco.. Una prima esecuzione da non credere … Comunque la nostra Paolina (Fre, solista dei Sentieri Selvaggi ndr) conosce il pezzo dall’ultima nota alla prima, lo suona benissimo. É stata una bella occasione.
Flauto, clarinetto, percussione, pianoforte, violino e violoncello: per portarci in quale dedalo?
Daedalus è un pezzo strano. Un labirinto costruito come una metafora della condizione in cui ci siamo trovati nelle ultime due generazioni. È una decostruzione di un pezzo di Boulez, Dérive 2. Daedalus era stato commissionato per la sala intitolata a Pierre Boulez, con cui Daniel ha avuto un rapporto strettissimo. La mia idea era di costruire un falso frammento dalla serie originale. Questo “finto” Boulez viene inserito in un labirinto, di cui ho disegnato anche la forma in partitura, nel quale non sai dove sei. Gli strumentisti entrano e cominciano ad allontanarsi o avvicinarsi da un centro di attrazione che è come un buco nero. A me interessava smantellare questo frammento e ridurlo a materia organica. Quando si va più lontano dal centro, la musica accelera, perché c’è meno gravità. A volte ci si avvicina senza saperlo, e diventa lentissima, pesantissima, perché al di là della siepe c’è questo buco. Gira e rigira, il frammento si snatura completamente, diventa forza bruta. Questo abisso è sempre lì, una mia ossessione. Quando gli esecutori arrivano finalmente al centro del labirinto, la “supernova” implode. Sorpresi, guardinghi, al centro che cosa trovano? Materia primigenia. Acqua.
Con Sentieri Selvaggi hai una tua storia personale.
Sempre interessante. All’inizio, per mettersi in luce – perché c’era una specie di monopolio, si sa -, hanno cominciato a eseguire solo quella musica “esclusa” che a me non interessa molto. Ma lo hanno fatto come provocazione, sono stati nel giusto, hanno rotto. La vera bravura è venuta dopo, quando hanno dimostrato di avere un’apertura mentale, un’idea di musica al di là delle ideologie, dei cliché e dei manierismi. Hanno cominciato a suonare Boulez, Donatoni – per esempio fanno Arpège benissimo -, e mano a mano stanno andando a scegliere in modo molto libero ciò che per loro è musica o lo è meno. E lo fanno ai massimi livelli. È gente che suona veramente bene.
Abisso, enigma. Ti ha sempre attratto quel mistero esistenziale ch’è il rapporto fra gli esseri umani. L’opera nuova per Monaco rientra in questa ricerca?
Sì, le tre opere sono una trilogia. La prima, Quartett, derivata da un lavoro teatrale ermetico e anche oscuro, è l’abisso del rapporto psicologico fra due esseri umani. L’abisso della coppia che dovrebbe assicurare la continuazione della specie. Ma se una civiltà arriva a eliminare una delle due parti, in quel caso l’uomo, è una civiltà pronta alla morte. E questa è la denuncia. Trompe-la Mort, da Balzac, non era nemmeno teatro: lì mi sono gettato nell’arena, nel più importante teatro di Parigi, con il più grande autore francese. Un suicidio, altro che rischio. Invece il pubblico è andato in delirio e ho scoperto che i francesi non conoscono Balzac. Come noi con Manzoni: sono stati costretti a scuola a leggerne qualcosa, magari due libri, dopo di che non lo hanno più voluto vedere né sentire. Curioso essere lo straniero che arriva da loro e dice quanto importante sia Balzac. Farlo riscoprire. Ho rischiato grosso, ma è quello per cui vale la pena di far musica oggi.
E nella trilogia, Timone d’Atene che posto occupa?
É un allargamento continuo. Prima il rapporto a due: Quartett. Trompe-la Mort è il rapporto umano inserito nella società. Con Timone d’Atene entriamo nella relazione dell’uno con il cosmo, con il futuro. Timone, che molti considerano incompiuta, è un’opera enigmatica che svaria da un’utopia assoluta a una misantropia furibonda. Molto infantile, anche arrogante, ma parla al presente. L’utopia oggi è morta, se hai un ideale ti ridono in faccia. Se coltivi un’aspirazione appena sopra la soglia del far soldi, sei un cretino. Viviamo in un monoteismo che non ammette alternative: così o niente. Profitto, immagine, apparenza. Vi lascio una finta libertà, come i topini in gabbia. Potete scegliere il formaggino, la coscetta di pollo, se essere transgender. Però buoni e zitti.
Ma la tua è una condizione fortunata: il riconoscimento all’estero dura ed è forte.
Sì, negli ultimi anni è così. Peccato per il mio paese, che amo, perché è popolato da gente con una marcia in più. Dopo tredici anni di insegnamento a Malmö lo posso dire. Non una, dieci marce in più… ne avrei da raccontare… Paese eccezionale, ma quando c’erano i clan, le parrocchie… venivi ignorato. Anch’io ho avuto i miei anni di galera.
Quando?
Subito, dal conservatorio, quando ero studente. In dieci anni di composizione, in Italia non ho mai ascoltato un minuto di musica mia. Invece, succede che un giorno un quartetto d’archi americano mi telefona da Amsterdam e dice di aver scoperto un mio quartetto scritto quando avevo vent’anni. Non lo conoscevano. Non lo ricordavo nemmeno io. Beh, dovrei girare un film su questa storia. Prima di suonarlo, chiedo loro di farmi una registrazione. Certo, promettono. Me la mandano. L’ascolto. Sono felice e sconvolto: il pezzo funzionava benissimo, non era solo un esercizio. Se l’avessi sentito nel ’77 avrei risparmiato notti insonni e una montagna di dubbi. Certo, adesso mi dici: riconoscimenti. Ma resta un grosso prezzo pagato per conquistarli. Eppure amici, colleghi, conoscenti insistono nel dirmi “ma tu hai l’estero”, come fosse un rimprovero.
Bello: “tu hai l’estero”.
Sì, bello e ridicolo. L’estero non ti cade mica in testa come un vaso di gerani. Fatevelo anche voi l’estero. Quel che ti blocca è non sapere dove sei, che cosa stai facendo. Giusto? Sbagliato? Quello era già un quartetto maturo. Se avessi ascoltato allora quello che sconosciuti stranieri mi hanno eseguito 37 anni dopo, sarei stato lo stesso?.
Sulla scena di oggi c’è qualcosa che ti fa sperare?
Il fatto che, diversamente da quel che si dice, il mondo è pieno di ragazzi che hanno voglia di fare, lavorare, cercare. Non sono più d’accordo con il motto: abbiamo la classe dirigente che ci meritiamo. Noi siamo meglio, molto meglio.
Constatazione che viene dall’insegnamento o da altre esperienze?
Dal fatto che se tu dai gli strumenti per capire e per agire, la risposta c’è sempre. Io cerco di insegnare non a scrivere come scrivo io, ma ad avere strumenti per scrivere come loro possono e vogliono. Soprattutto in un momento in cui pullula una massa di informazioni, spesso false, cerco di affinare quella che si chiamava responsabilità, per capire di più e fare delle scelte. Perché se non sei tu a scegliere, qualcuno lo farà per te. Avere Beethoven, il rapper, il trap uno vicino all’altro non è libertà. É conformarsi a quel che ti dicono sia “forte”.
Anche tu hai scritto citando altre musiche; penso a Honk the Monk,Let me Bleed, Body Electric.
Sì, ma non come supermarket. Come compresenza di esperienze vissute.
Qualcosa che oggi non proprio non puoi sopportare?
(ride)…Quasi tutto. Elenco troppo lungo!
In sintesi?
Il manierismo. In ogni genere e forma. La viltà e la stanchezza di lucidare quel che è già stato fatto.
Luca Francesconi, il musicista “che ha l’estero”. Anche senza la “e” in mezzo.
Nella foto: i Sentieri Selvaggi. Andrea Rebaudengo (pianoforte), Piercarlo Sacco (violino), Paola Fre (flauto), Mirco Ghirardini (clarinetto), Carlo Boccadoro, Marta Soggetti (vibrafono), Aya Shimura (violoncello)