Nel suo viaggio di ritorno, dopo la liberazione da Auschwitz in un’Europa distrutta, Primo Levi riesce a conservare, nonostante tutto, la curiosità per la tragedia e anche per la commedia umana che gli si svolge intorno. E, descrivendole, torna alla vita. Riprendere in mano ‘La Tregua’ può essere oggi per noi una buona medicina per aprirsi e cercare di capire il mondo che ci arriva in casa
Succede di rileggere La tregua di Primo Levi nel giorno in cui degli ascoltatori di Radio Tre (esatto, di Radio Tre) mandano messaggi infuriati perché si sta parlando di Primo Levi. “Basta con questi ebrei!”, o anche “Smettetela di fare politica!”. Niente più di una coincidenza, forse. Gli antisemiti esistono, qualcuno di loro ascolta Radio Tre, e non si vergogna di uscire allo scoperto. C’è gente ributtante in questo Paese, anzi c’è sempre stata. Ma la rabbia per queste manifestazioni si accompagna alla rabbia per l’orgoglio dell’ignoranza, nuovo vessillo contro le cosiddette élites. Non l’ignoranza di chi non ha studiato: conosco moltissime persone che non hanno titoli di studio, ma sono aperte, intelligenti, tolleranti e curiose. L’ignoranza che va per la maggiore e viene rivendicata è quella che si accompagna alla chiusura e alla mancanza di curiosità. Del mondo, degli altri, di chi sembra diverso da te.
Leggere La tregua allora può essere una buona medicina per provare a capire il mondo. Il mondo di oggi, non solo quello del 1945. Racconta (lo specifico per quei pochi che non lo conoscono) il ritorno a casa di Levi, dopo la liberazione da Auschwitz. È il libro gemello di Se questo è un uomo, anche se fu scritto qualche anno più tardi. E comincia esattamente dove l’altro finiva: Levi e il suo compagno Charles stanno portando su una barella, verso la fossa comune, il corpo di Sòmogyi, il primo morto fra gli infettivi che da dieci giorni sopravvivevano nel campo abbandonato dai nazisti in fuga. Quattro giovani soldati russi a cavallo compaiono sulla strada, l’avanguardia dell’Armata rossa che libera Auschwitz. Il viaggio di Primo Levi verso casa comincia da qui, e sarà un viaggio lunghissimo e tortuoso: 35 giorni in treno, a piedi, in carretto. Prima verso est, dalla Polonia in Unione sovietica, poi a nord fin quasi a Minsk, poi giù a sud in Romania, poi a ovest in Ungheria, Austria, Germania, e infine l’Italia.
L’Europa, quando la guerra è appena finita, è attraversata da moltitudini in viaggio: deportati nei lager, detenuti nei campi di lavoro coatto, sfollati, militari smobilitati, profughi. Tutti malconci, vestiti alla meno peggio, spesso malati, affamati e poveri di tutto. I superstiti dei lager, come Primo Levi, sono oppressi dalla paura e dagli orrori, dalle aberrazioni e dalle torture. Ma viaggiano verso la vita, hanno l’incrollabile forza di chi si muove verso un ritorno all’esistenza, alla dignità, alla libertà. Viaggiano su carri-merci come quelli che li hanno deportati, ma sono liberi. Dormono in campi e caserme, ma possono uscirne. Patiscono la fame, ma qualcuno (la strampalata, umana, brusca e caotica assistenza dell’Armata rossa) si occupa di loro. Robuste donne sovietiche li lavano e li curano.
Lo sguardo di Levi su questi compagni di viaggio è attento, curioso, ironico e umoristico perfino. I personaggi di questa rappresentazione sono indimenticabili, vivi e intensi. Cesare il romano maestro di mercanteggiamenti, che sa “organizzare” qualunque commercio. Leonardo, il medico senza medicine. Olga, la partigiana ebrea croata. Il Greco, Mordo Nahum, cinico e navigato. Galina l’infermiera. Il Ferrari, ladro milanese. Charles, il partigiano francese. E molti altri. Primo Levi, debilitato dalla malattia e carico di ricordi indicibili, ha conservato la curiosità per la tragedia e anche la commedia umana che gli si svolge intorno. Torna a vedere e a descrivere la natura, i boschi, i fiumi, gli animali. Ricomincia faticosamente a vivere.
Può essere che anche noi, senza voler paragonare i tempi e i modi, dovremmo sperare di essere salvati, se non dalla solidarietà, almeno dalla curiosità per le moltitudini che ci arrivano dal resto del mondo. Ho visto spesso persone impaurite e diffidenti scoprire che “quelli” sono persone non solo da compatire e aiutare, ma anche da conoscere. Abituati a pensare che viviamo in pace nelle nostre tiepide case, dovremmo invece ricordare che, come dice il Greco, “guerra è sempre“. Che sempre può tornare. Primo Levi, alla fine del suo racconto vitale, non è ottimista. E l’ha chiamato La tregua, come i sogni in lager quando sognava di “tornare, mangiare, raccontare”. Solo una tregua ingannevole. Prima o poi qualcuno ci sveglierà con il comando “Wstawac!”. Alzati!