Che cos’è l’amore, nel tempo della disgregazione sociale? E come sta, l’amore, in un’epoca a strapiombo sulla crisi, nella quale ogni singolo respiro ha un costo (e dunque un prezzo)? “Fedeltà”, l’ultimo (attesissimo) romanzo di Marco Missiroli affonda la lama in quel grumo di relazioni che è la famiglia, stanandone con freddezza contraddizioni, apparenze e, soprattutto, compromessi cruenti.
Che cos’è l’amore, nel tempo della disgregazione sociale? E come sta, l’amore, in un’epoca a strapiombo sulla crisi, nella quale ogni singolo respiro ha un costo (e dunque un prezzo)?
Oggi, che l’intero sistema dei valori, quando non ha direttamente capitolato, scricchiola, e ciò che resta si trova brutalmente assediato da nuove sacralità effimere (il corpo esibito al posto della bellezza, l’incompetenza rivendicata in vece del sapere, l’incoerenza spregiudicata e strategica in sostituzione dell’etica, per dirne solo alcune), non possono certo i legami più profondi pensare di non rimanere scalfiti dal tempo presente.
Così non è un caso che il nuovo libro di Marco Missiroli, Fedeltà, pubblicato da Einaudi, vada a pescare proprio in quel grumo di relazioni che è la famiglia, stanandone con freddezza contraddizioni, apparenze e, soprattutto, compromessi cruenti.
Se poco più di tre anni fa il Libero Marsell di Atti osceni in luogo privato (Feltrinelli) arrivava a pensare che La moralità futura dell’uomo è nei suoi segreti presenti, questo assunto pare davvero una premonizione, a fronte del mondo costruito da Missiroli per questo nuovo romanzo, che di quell’altro ha assorbito i tic, gli angoli acuti, le nevrastenie periferiche facendone il punto di vista attraverso il quale focalizzare gli eventi della storia.
Serve però dimenticare la vitalità sensuale e inesausta di Le Grand Libero, per entrare in Fedeltà, dimenticare la meravigliosa inadeguatezza di suo padre, pacata a colpi di Rescue Remedy, l’ingombrante profumo della madre: Parigi è lontana, Milano ne è un’eco civile e arrogante insieme. E Fedeltà è un romanzo nel quale i personaggi non compiono nessunissimo sforzo per piacerci.
Millanta a tratti forse empatia, del resto, l’universo famigliare nel quale tutti si muovono, ma raramente è in grado di comprensione; e se, com’è, la sostanza della psicologia dei singoli è friabile per costituzione, cos’altro potrebbe discenderne, se non ambiguità?
Così la diade Carlo-Margherita, la coppia attorno alla quale si propagano le altre relazioni del romanzo, dimostra fin dalle fondamenta una sempre possibile propensione alla divergenza: Carlo è un uomo attraversato da smottamenti e cambi di rotta, e Margherita è cedevole (lo scambio giusto per lei era sempre stata la direzione degli altri) al punto da trovare affidamento nelle contraddizioni del marito, agendo in coerenza e conseguenza. Non sono, non si considerano una coppia in crisi: c’è la complicità, c’è il sesso, c’è il cercarsi, c’è il riconoscersi. Eppure.
Eppure succede, nella maniera più banale possibile: l’Università, la studentessa giovane, il corpo sconosciuto, il desiderio, il professore piacente, il ruolo. Non è accaduto tutto, in quel bagno in cui lui è stato visto insieme a lei, ma è accaduto abbastanza per aprire una crepa, e attraverso questo spiraglio ognuno vede, a brani, ciò che manca (che gli manca) della condizione sociale in cui si è incistato.
Poiché non è più il tempo di Anna Karenina, eroi non ce ne sono, e il modo in cui ogni famiglia si rende infelice è una abdicazione trasversale alla lotta contro il conformismo delle aspettative sociali.
Non è eroica Margherita, ma caparbia e ambiziosa quel che basta e capace di sorvegliarsi anche quando si abbandona: vuole un amante, vuole non rinunciare a una nuova casa troppo costosa – anche quando questo comporta strategie spregiudicate per accaparrarsi l’immobile sfiancando e ingannando il proprietario.
Non è eroico neppure Carlo, che non sostiene il conflitto più grande (il rischio di innamorarsi di nuovo?) e lascia che a decidere per il no sia l’altra, Sofia, – salvo poi infilarsi in una serie di tradimenti di piccolo cabotaggio.
Né, tantomeno, sono eroiche le famiglie, che nella partitura di Missiroli lasciano intravvedere tutto il portato di sottili reciproche costrizioni e miopie.
Nella pretesa conciliazione domestica, che assorbe in composto quadretto ogni cosa, dal lutto al lusso, le coppie dei genitori sono un punto di riferimento zoppo per i figli ed hanno due sole vie: esibire il proprio squilibrio ignorandolo – e dunque assecondare la violenza del giudizio e della relazione riproponendosi come paradigma; oppure coprire il disassamento cercando la rimozione – e quindi alimentare rapporti sbilanciati.
Campione della prima specie è la coppia di genitori di Carlo: se il padre Domenico è il primario dagli imperativi irreversibili, che inchioda il figlio nella personale definizione di capitale ad alto rischio (autostima, addio per sempre), il capolavoro descrittivo è la madre:
Una donna seppellita dal galateo che si concedeva insubordinazioni minime: il piede nervoso sotto il tavolo, rigirarsi l’orologio, fare l’occhiolino a uno dei figli sperando di frenare potenziali insolenze, servire pietanze per interrompere discorsi incendiari. Aveva il dono di sedare gli accenni di rivolta.
Alla categoria della rimozione appartiene invece la famiglia di Margherita, nella cui mente il ricordo del padre morto, sempre demandato alle tenerezze dell’infanzia, trabocca di affetto, mentre alla madre Anna, che alla famiglia ha sacrificato la passione politica, le ambizioni lavorative e in definitiva la propria identità, tocca scoprire post mortem che l’uomo buono che si era portata all’altare era stato capace di essere qualcosa d’altro, qualcosa di insospettato, e ben nascosto, eppure – tradimento del tradimento – lasciato lì da far scoprire quando i conti non li si sarebbe più potuti fare.
Ma è proprio la cantina in cui il segreto è chiuso a dare linfa ad Anna, che lo cova, lo addomestica dall’appartamento di sopra e, nel frattempo, lo allontana mano a mano che riscopre la propria esistenza da sola: i suoi dischi di Modugno, la sua libreria e i libri che distribuisce e divora sono il vero legante tra le enormi solitudini delle vite di Fedeltà, e nel suo salotto si incrociano il non detto della figlia, quello del cognato, le inquietudini e i desideri irrisolti di entrambi, la vita di dentro e quella di fuori, il sopra e il sotto.
È una Milano compassata e tellurica, metropolitana e appartamenti da ultimo piano, quella di Missiroli: attraversata dal fantasma di Dino Buzzati, perfettamente a proprio agio tra veggenti sul viale del tramonto, protagonisti riottosi, tensioni sotterranee, echi di lotte di cani e ferocia notturna sepolta.
Quella diurna, invece, di ferocia, non scoppia mai.
Resta sul ciglio, addomesticata, civile, inespressa. E, forse, per questo, desolante.
La scrittura (dialoghi asciutti, in presa diretta), il registro (elegiaco, ma pop – Drive In e Fenoglio), il montaggio (in dissolvenza, che, dove funziona, come nella scena della neve a Milano, è strepitoso) danno al libro una tensione che ha qualcosa della promessa perfetta.
Dopo poche pagine di Fedeltà è già evidente dove si andrà a parare, ma per le successive duecento sarà come stare seduti su una sedia scomoda, dalla quale tuttavia non si riuscirà a staccarsi, nella percezione che, una volta alzati, qualcosa di importante ci sarà sfuggito.
Dove è l’amore, si diceva, in questo romanzo in cui ognuno tradisce qualsiasi cosa, il cui protagonista è riluttante, in cui la famiglia è quanto di più vicino a una perfetta trappola degli affetti, in cui nessuna rottura è mai definitiva o trasgressiva.
Dire, non dire, negare, rimuovere la possibilità di confessare che siamo diversi, che siamo altro rispetto a quello che siamo stati fino a quel punto, che siamo oltre perché quel punto lo abbiamo superato e abbiamo deciso di fare finta di nulla: in questo labirinto si muovono senza un coraggio definitivo i personaggi di Fedeltà.
Che, in fondo, ribadiscono che ad amare un altro si rinuncia in parte a sé stessi (e fin qui nulla di nuovo); quanto poi all’effettiva conoscibilità dell’altro, tutto un altro paio di maniche. Di qui l’esasperazione di questa società post-libertina che Missiroli mette in scena: insoddisfatta, inappagabile, stremata, egocentrica, mancante.
Possibile uscire gratificati da una tale impietosa lettura dei nostri tempi?