Dalla prima foto – suo figlio sull’altalena – all’ultimo progetto – Milano che guarda a Expo – passando per Parigi e Capri. A colloquio con Maurizio Galimberti
Maurizio Galimberti ricorda la sua prima fotografia scattata con la Polaroid: risale al 1982 e ritrae suo figlio sull’altalena. L’anno dopo questo stesso mezzo diventa un’ossessione e lo trasforma, in breve tempo, in Istant Artist. Galimberti che è nato a Como nel 1956 ricorda quelle vecchie pellicole Polaroid che ancora si potevano manipolare e che lo facevano sentire il killer dell’istante, a piede libero per New York e in giro per Italia ed Europa con il suo sguardo puro. La sua fotografia a prima vista sembrerebbe, proprio perché istantanea, del tutto istintiva. Ma insieme all’istinto c’è sempre il progetto, come dimostrano precisione e simmetria dei suoi mosaici che ritraggano persone o edifici: quegli spartiti musicali fatti di Polaroid quasi sempre vengono composti nella loro versione definitiva al primo colpo, senza bisogno di sostituire alcun tassello.
Il progetto di Galimberti è fondato su un preciso background culturale. I suoi primi (e perenni) interlocutori sono le avanguardie parigine, Man-Ray e Duchamp sopra tutti, e poi Giacometti, e poi il futurismo italiano, Boccioni, Depero, Marinetti, i fratelli Bragaglia. Ancora, il laboratorio Dada, la pittura di Bacon, i marmi e le colonne senza fine di Brancusi. La teoretica fotografica di Robert Frank. La contaminazione con l’arte, la letteratura, la musica, tra i mezzi, spiega Galimberti, è fondamentale in ogni artista. È lecito stampare su pellicola polaroid perfino partendo da un telefonino.
Nato a Como e cresciuto a Meda, Maurizio ricorda con nostalgia quel paese dove, quand’era ragazzo, i bar alla sera restavano aperti e si poteva rimanere ancora in giro a fare due chiacchiere. Quegli stessi posti oggi si sono trasformati in «non luoghi». Nel frattempo si è trasferito a Milano e, dopo un’iniziale diffidenza, ha addomesticato, o forse si è lasciato addomesticare, dalla città che pian piano è diventata «casa», a furia di viverci e di ritrarla, attraverso le fotografie che, nell’ultimo progetto, la raccontano verso l’Expo.
Le sue fotografie di Milano sono in mostra alla galleria Still accanto a quelle di Virgilio Carnisio: come giudica questo accostamento scelto da Denis Curti?
Lo trovo arduo, strano, ma allo stesso tempo interessante. Da una parte c’è la Milano di Carnisio, che ricorda quell’aria un po’ bohèmienne che le zone centrali di Parigi conservano e che anch’io ho iniziato a fotografare negli anni ’70. Dall’altra la mia Milano, che ha perso l’identità romantica dell’epoca e ne ha assunta una contemporanea, dinamica, in movimento verso l’Expo. È un accostamento tra due diversi mondi, linguaggi e stili della fotografia: mi piace. E poi ho sempre stimato Virgilio: compravo il Corriere della Sera e cercavo subito la rubrica La mia Milano, da lui curata.
Milano è quella stessa città che lei ha detto tante volte di non riuscire ad afferrare. Nel 2003, nel libro Journey to Italy, scriveva «Mi scappa dentro». Oggi l’ha afferrata?
Sì, ho imparato ad amarla. Io vivo molto da solo: col tempo, anche qui, ho trovato quei luoghi dove posso sentirmi a casa, come il fioraio Bianchi, il ristorante Il Consolare, alcune librerie, il parco dietro casa. Ho scoperto un micromondo. È una città a misura d’uomo, forse in Europa una di quelle in cui si vive meglio. Sarà che ho sempre abitato in centro….
Milano è stimolante anche a livello artistico?
Fotograficamente l’ho sempre vissuta come «la città dietro l’angolo», dove si finisce per pensare che non ci sia niente di interessante, e mi sono lasciato affascinare di più da Parigi, forse per i personaggi che di lì sono passati: Picasso, Cocteau… A Milano, a parte l’arte povera, Manzoni, Mulas, non c’era molto. Il linguaggio del gruppo del bar Jamaica, totalmente diverso dal mio, non mi ha mai attratto. Oggi, tuttavia, riesco sempre a trovare dei punti di vista interessanti, soprattutto negli edifici di ultima costruzione. Certo, se dicessi che mi piace la zona di Porta Nuova mentirei: mi sembra un tentativo di essere come New York, una downtown milanese troppo carica di cemento e di strutture imponenti. Ma, per esempio, al museo Poldi Pezzoli ci sono atmosfere stupende, fotograficamente in grado di aprire enormi possibilità. Se dovessi, oggi, rifare un progetto su Milano, probabilmente partirei da lì.
C’è già un progetto con cui racconta la Milano che si prepara all’arrivo dell’Expo.
L’idea di Milano…by Maurizio Galimberti è nata nel 2009 e racconta la città attraverso polaroid singole che risalgono anche a vent’anni fa, polaroid 50×60 e mosaici che partono dal 2009 per arrivare fino ai nostri giorni. Attraverso una rilettura delle mie tecniche, il mio sguardo futurista, il dinamismo, il dadaismo, il ready-made scorre la Milano più storica e quella degli ultimi sei anni, compresa la Torre Unicredit di Cesar Pelli e il Nuovo Pirellone. Il libro uscirà a febbraio e conterrà contributi di Dario Fo, Piero Lissoni e Davide Oldani, lo chef che ha proposto il piatto che ho immortalato come piatto ufficiale dell’Expo.
Il posto più bello che ha raccontato con le sue fotografie? Di nuovo Parigi?
Qualche anno fa, per un progetto, ho scoperto la bellezza di una certa Capri, veramente affascinante per le sue architetture, i colori del cielo e del mare.
E il posto più difficile da ritrarre?
A Roma ho scattato davvero poche foto. È una città talmente satura di persone, rumori, sensazioni, che non ti permette di concentrarti sulla visione e ti fa perdere molti dettagli. Anche se è proprio lì l’edificio che più mi ha ossessionato, il Palazzo della Civiltà del Lavoro. È come una palestra visiva, un luogo metafisico, da cui guardandolo si riesce sempre a tirar fuori qualcosa di diverso, in base ai colori di quel giorno, al proprio stato d’animo, come in uno spartito musicale.
Io le dico una parola e lei mi risponde con la prima cosa che le viene in mente.
Dettaglio. Ritratto.
Autoritratto Specchio dell’anima.
Simmetria Il ritmo dei miei mosaici.
Progetto Un accessorio per la fantasia.
Espressione La mia polaroid che esce.
Milano Casa.
Parigi Picasso, Man-Ray, Brancusi
Verità Dolore, fa sempre male. E onestà.
Stile Estetica.
Bellezza Composizione del mio ritratto.
Pop L’America, New York, uno stile di vita da Factory, il gruppo. Anche se a me non piace perché sono un po’ un asociale.
L’ultima parola: attesa Deve essere breve.
Damatrà, Opere di Virgilio Canisio e Maurizio Galimberti Galleria Still, fino al 21 gennaio
Foto in copertina di Alessandra Lanza