Suggestioni d’école du regard nella commedia di Renato Gabrielli allestita da Lorenzo Loris. Incrocio raffinato di sguardi tra Antonioni, Joyce e Rohmer
Alla radice di La donna che legge ci sono suggestioni e spunti dall’Ulisse di Joyce e soprattutto dalle pagine di Le brave ragazze non leggono romanzi, il libro in cui Francesca Serra analizza la figura della lettrice come si è andata formalizzando e penetrando, tra cultura e prostituzione, nella cultura occidentale a partire dagli scritti settecenteschi di Rousseau e degli illuministi. Renato Gabrielli ne ha elaborato un geometrico gioco teatrale, raffinato e impegnativo tanto per gli spettatori che per il trio degli attori protagonisti.
Con uno sguardo alla Bergman nell’oscurità delle relazioni sentimentali al maschile e al femminile e una levità/profondità di scrittura alla Rohmer il copione è concepito come un ordito che intreccia contemporaneamente tre tipi di scrittura: il trattamento/sceneggiatura cinematografica che traccia lo svolgimento degli eventi, il dialogo a due che rivela i rapporti tra i personaggi e il soliloquio riporta all’intima psicologia di ciascuno di loro.
Gli attori sono chiamati a restituire e a offrire un’indispensabile concretezza di voce e di corpo al continuum di tale complesso linguaggio drammaturgico. Vivono in scena una storia ambientata in una città di provincia sul mare (se si sanno cogliere i giusti indizi vi si può riconoscere Rimini), dove un affascinante e ricco avvocato che ha lasciato la professione per dedicarsi alla poesia, autentica sua passione, si invaghisce di una ragazza vista un mattino sulla spiaggia a leggere un corposo volume.
Messaggera di quell’ossessione d’amore diventa un’avvocata con cui nel passato ha vissuto la sua più importante storia sentimentale, un’ex-collega ancora profondamente legata a lui. Per l’uomo il poter contemplare ancora la ragazza nell’atto della lettura diventa lo scopo di un’intera vita, mentre la ragazza trova nel denaro offerto dall’uomo la via disperatamente agognata per l’indipendenza e per l’affrancamento dalla vita provinciale. L’avvocata interviene e soffre ma non in silenzio. Un triangolo malsano in cui non ci sono vincitori, ma solo vittime che non riusciranno a godere delle proprie preghiere esaudite.
In una geometria sentimentale dalle coordinate composite Gabrielli sviluppa un gioco di sguardi che è il vero fulcro dell’intera piece. Ciascuno dei tre personaggi guarda all’altro e dall’altro è guardato; lo sguardo esterno e il modo in cui tale sguardo viene recepito definisce il profilo affettivo e biografico di ciascuno di loro. Senza la coscienza di un punto di osservazione esterna ciascuno di loro sarebbe solo una marionetta senza una vita. Lontani da una logica pirandelliana e in una dialettica di strutture che sarebbe di certo stata apprezzata da Antonioni.
Se poi si considera che nel gioco siamo chiamati noi spettatori per primi a seguire e a definire personaggi e vicende proprio attraverso l’intersezione delle prospettive di visuali, si possono capire i livelli di complessità strutturale sostenuti dall’architettura drammaturgica. Anche per questo l’intelligente regia di Lorenzo Loris ha optato per una scena totalmente spoglia, solo un tavolo e una sedia, lasciando ai movimenti del corpo degli interpreti il compito di definire posizioni spaziali che sono anche posizioni dell’anima. Gli attori? Meravigliosamente generosi e intensi. Max Speziani un gradino su tutti. Resta un unico dubbio: uno spettacolo così “poco italiano” troverà un pubblico italiano in grado di apprezzarlo fino in fondo?