“Una giusta causa”, diretto dall’esperta Mimi Leder e interpretato dalla bravissima Felicity Jones, è un biopic che racconta i primi passi nella carriera di Ruth Bader Ginsburg, avvocatessa oggi giudice alla Corte Suprema Usa, pioniera dagli anni 70 nei processi anti-discriminazione di genere. Studentessa a Cambridge (nove ragazze in mezzo a 500 maschi), iniziò la sua battaglia difendendo un uomo, vittima di ineguale trattamento giuridico. Una strategia che sarebbe poi servita assai di più al femminile
Una giusta causa (On the Basis of Sex), diretto dall’esperta Mimi Leder (The Pacemaker, Un sogno per domani) è un film biografico che racconta la vera storia di un’eroina dei nostri tempi, Ruth Bader Ginsburg, interpretata da una bravissima Felicity Jones. Solido, ma dal ritmo un po’ lento, (in)segue Ruth in ogni suo passo, e l’occhio della cinepresa ne registra meticolosamente ogni gesto, respiro, pensiero, movimento delle labbra, in modo quasi didascalico, celebrativo, lasciando poco spazio all’emotività. La sceneggiatura, scritta da Daniel Stiepleman (nipote della Ginsburg), si concentra su un caso di discriminazione sessuale che nei primi anni ’70 Ruth portò al dibattimento in una corte federale e sullo sviluppo di una strategia legale per mettere in discussione ingiustizie così radicate nella società americana di quegli anni da sembrare “naturali”.
E la regista introduce come primo elemento, per chiarire sin dai titoli di testa il suo messaggio, la canzone Ten Thousand Men of Harvard. Del resto è ciò che si vede sullo schermo: una sfilata di maschi, per lo più bianchi, in abito scuro, che con passo deciso attraversano Cambridge. In mezzo a loro c’è Ruth, studentessa di giurisprudenza del primo anno, una delle sole nove donne, su quasi 500 studenti, nella sua classe. A una cena, lei e le altre vengono invitate da Erwin Griswold, il decano della scuola di legge (interpretato da Sam Waterston), a spiegare perché pensano di avere il diritto di essere lì a studiare, rispetto a uomini che avrebbero potuto essere ammessi al posto loro. L’intento della domanda non potrebbe essere più chiaro, ma altrettanto decisa è la risposta di Ruth: “Mio marito Marty è iscritto al secondo anno e io sono qui per imparare di più riguardo al suo lavoro, così da poter diventare una moglie più paziente e comprensiva”. Una frase intrisa d’ironia che porta con sé una pesante verità: una ragazza poteva frequentare l’università, ma non le era possibile ammettere la propria ambizione. È il 1956, siamo solo all’inizio del film e del percorso di studi e vita di una donna che ha usato il suo sapere e l’apparente fragile corporeità a difesa di altre donne, senza mai stancarsi, che ha lavorato duramente per smantellare, caso dopo caso, legge dopo legge, il sessismo legalizzato.
Grintosa ma mai dura, dopo il diploma Ruth sceglie la strada più difficile: la giurisprudenza. All’epoca le ragazze erano più interessate a sposare un buon partito che a realizzarsi professionalmente, lei invece era certa di saper fare l’avvocato, e meglio di chiunque altro. Ben presto si scontra coi pregiudizi di un mondo elitario, fortemente maschilista, ma il marito Martin (qui interpretato da Armie Hammer) a sua volta avvocato, la sostiene e incoraggia. Una nuova società stava nascendo, lo cantava Bob Dylan nel suo brano The Times They Are A-Changin’, uscito a gennaio 1964, ma una donna sposata con figli non poteva ancora ambire a un posto di lavoro soddisfacente. Men che meno nei grandi studi legali. Ma come si sarebbe potuta evolvere la società senza leggi che indicassero con chiarezza l’uguaglianza tra esseri umani? Eppure erano gli anni del discorso “I Have a Dream” di Martin Luther King (28 agosto 1963), dell’arte provocatoria, ma costruttiva, di Barbara Kruger, e il successivo, celebre, festival di Woodstock (1969) avrebbe mostrato un’intera generazone pronta a gridare, insieme allo slogan “Love, Peace&Rock’n’Roll”, il più minaccioso “The Times They Are A-Changin'”.
In quel momento Ruth decide di portare dinnanzi alla Corte Suprema il primo, e forse più importante, caso della sua carriera: “Moritz v. Commissioner of Internal Revenue”, un caso di discriminazione di genere del 1972. Il querelante, Charles Moritz, era un sessantenne scapolo che per l’assistenza alla madre malata non beneficiava della deduzione fiscale prevista dalla legge, in quanto uomo. La legge prevedeva che tutte le donne potevano beneficiare di siffatta deduzione, mentre gli uomini dovevano soddisfare ulteriori criteri, come essere vedovi o divorziati. Insieme, Martin e Ruth vinsero la causa: la vittoria dei Ginsburg fornì a Moritz un regalo oltre il prezzo e mise in crisi un intero sistema. L’obiettivo di Ruth era principalmente persuadere la Corta Suprema dell’esistenza di una discriminazione basata sul sesso, e che questa violava la Costituzione americana, in particolare una clausola del XIV Emendamento. Anche la strategia era chiara: non richiedere alla Corte l’eliminazione di qualsiasi forma di discriminazione, ma discutere casi relativi a specifiche leggi discriminatorie, per creare precedenti su cui costruire successive vittorie in aula. Iniziare con un caso che riguardava un uomo, si rivelò un’arma vincente, perché contestare una legge che introduceva una discriminazione in base al sesso, ma che colpiva un bianco, ha convinto una Corte maschile, permettendo a Ruth di vincere, per lei, per Moritz, e soprattutto per un’intera generazione.
On the Basis of Sex mostra come ci è riuscita, il che è già un risultato: ma il film è degno di lei? Non proprio. È informativo, in modo didattico, ma fondamentalmente si ha l’impressione di assistere a un esercizio di agiografia, la celebrazione della gesta di qualcuno che nella vita non ha mai optato per la superficialità. La regista ricostruisce in maniera minuziosa e fedele le vicissitudini di Ruth per raccontare ciò che questa grande donna ha realizzato, e perché la sua azione è stata importante, tematizzando sia la sua personale partecipazione all’attivismo femminista sia il contesto intellettuale al quale si è avvicinata. Nozioni giuridiche e disquisizioni teoriche riempiono intere scene del film, forse troppo, e rischiano di rendere la visione schematica, come se mancasse qualcosa al linguaggio filmico, forse più storia, più personalità, più emozione.
Nominata dal presidente Clinton nel 1993, Ruth è oggi magistrato dalla Corte Suprema Americana, una delle quattro donne nella storia, figura di ancor maggiore importanza rispetto al passato, ed è vista dai giovani come qualcosa più di un giudice, un esempio di vita, un’icona femminista della cultura liberal. Il valore di questa donna, ribattezzata dai fans “The Notorius RBG”, e insieme la sua grandezza, inevitabilmente creano nel pubblico una forte aspettativa nei confronti del film, che invece non sorprende, non aggiunge né sottrae valore a Ruth e alla sua storia. Un giusta causa si rivela così un resoconto romanzato dei suoi anni di formazione, un biopic ben confezionato che vuol far arrivare il messaggio al grande pubblico, ma a tratti anche un omaggio imbalsamato a una figura larger than life, che ha cambiato il mondo.
Una giusta causa (On the Basis of Sex) di Mimi Leder con Felicity Jones, Armie Hammer, Kathy Bates, Justin Theroux, Stephen Root, Sam Waterston, Francis X. McCarthy, Cailee Spaeny