Shammah riporta in scena l’opera di Giovanni Testori, una riflessione interessante sul teatro oggi e sul caos creativo dietro una messinscena
Provocazione. Il più grande torto che si può fare ai Promessi Sposi alla prova, in scena al Teatro Franco Parenti, è continuare a tirare in ballo Giovanni Testori.
Alt: questo non significa strizzare o, peggio ancora, dimenticare il lavoro dello scrittore di Novate.
I meriti di Testori in relazione alle ossessioni sul Manzoni e I Promessi Sposi ci sono tutti, e si ritrovano nel testo dei primi anni Ottanta portato in scena nel 1984 nel salone di via Pier Lombardo con Franco Parenti primo attore, un cast che comprende anche Lucilla Morlacchi e Andrée Ruth Shammah alla regia.
Individuare nel legame con Testori la chiave determinante per rileggere I promessi sposi alla Prova è, come in apertura, importante ma non fondamentale. Perché se nell’opera di Testori resiste la volontà di rivestire, re-interpretare, rimpastare il succo di Manzoni, l’edizione del 2019 (firmata ancora da Shammah) esige da sé il medesimo impegno.
Sì, Shammah mantiene il focus sulla matrice testoriana, ma sarebbe riduttivo considerare il lavoro nella sua globalità come mera operazione ideata esclusivamente per rendere omaggio al maestro, così come non era esclusivo cardine di Testori rendere tributo alla figura di Manzoni.
Il lavoro della regista è, invece, al centro di un’operazione molto più articolata e interessante, di una riflessione che prescinde dal merito e si trasfigura, appunto, in dibattito “naturale”. Cosa è diventato il teatro oggi?
Ci arriviamo, certo, attraverso le parole e la filologia di Giovanni Testori – e questo è un fatto, e Shammah non lo nega. Assai più irriverente, tuttavia, è rileggere questo testo nel 2019, rimetterlo in scena per un pubblico che non ha idea cosa fosse il teatro nel 1984, ma è in grado di comprendere quali forme, quali simboli, quali linguaggi segua oggi. Certe cose rimangono le medesime. Altre migrano sotto nuove urgenze.
Shammah prende Testori per immergerlo in un universo che ricorda il passato ma che è profondamente intrecciato alla contemporaneità, quella teatrale, nello specifico. I suoi Promessi sposi alla prova sono un omaggio, sì, ma non soltanto a Giovanni Testori.
Una celebrazione estenuante, come estenuante è il mondo del teatro per chi lo fa: un lavoro fatto di fatica, di ripetizioni, di centralità della parola. È appunto nella considerazione di quest’ultima, atto fondante e politico, che si intravede il legame con Testori e allo stesso tempo il suo superamento.
Teatro è fatica, sudore, ripetizione, terrore di essere messi da parte, come capita all’attrice interpretata da Laura Marinoni che fa capolino dalle assi del palcoscenico per ricordare quanto e l’interprete sia sangue, carne e ambizione.
Teatro è, appunto, parola, la voragine, lo iato di «Quel» prima di «ramo», «lago» e di tantissime altre unità irriproducibili, o risonanti in eco che hanno milioni, infinite, aggressive sfumature.
Teatro è capacità di un attore di perdersi dentro un personaggio, compromettendo la propria identità. Di lavorare su quello che puoi liquidare come «un grande classico», e che invece vive di percezioni e di rappresentazioni stancanti e angoscianti anche quando sembrano semplici.
Testori lo sapeva, lo sa bene anche Andrée Ruth Shammah che oggi fa di Promessi Sposi alla prova un lavoro rigoroso e mai ammiccante sulla legittima confusione creativa che nasce quando affiora la possibilità di una messinscena. Ottimo il gioco degli interpreti (spicca la già citata Marinoni nei panni de «l’attrice che fa Gertrude», ma pure gli altri sono tutti efficaci, con un asterisco Carlina Torta, presenza estremamente rassicurante sul palco), ma nei labirinti di un lavoro così dove finiscono i personaggi, dove si può iniziare a parlare di finzione, di interpretazione, di spazi e di tempo?
I Promessi Sposi alla prova è, al di là di qualsiasi reverenza nei confronti di Testori e delle celebrazioni a lui giustamente dedicate, un testo su una “prova”, appunto. Una prova incandescente e umida di caos, in cui crollano le certezze e predominano le contaminazioni, la malattia, la crisi dell’identità. Non c’è umanesimo, né in Testori e neppure in Shammah, perché l’arte predomina e contagia. E la vita sopravvive tra uno iato e l’altro.
È in questa seducente discrasia che si gioca il ruolo di Shammah, ma pure il ruolo del teatro stesso: come istituzione, come fabbrica politica, come struttura creativa. Non capire questi nessi, e limitarsi a citare Testori e la sua nevrosi lirica per Manzoni, fiacca l’energia del lavoro oggi in scena. Che si interroga senza darsi risposte, perché in fondo è giusto così.