In Palazzo Grassi a Venezia ha inaugurato settimana scorsa la prima antologica personale dedicata al belga Luc Tuymans, classe 1958, uno dei maggiori artisti contemporanei. La tecnica tradizionale della pittura ad olio si piega a risultati espressivi raffinatissimi e di grande profondità, anche concettuale: tra un omaggio a Curzio Malaparte e una riflessione sullo statuto delle immagini, nell’epoca della loro inesauribile riproducibilità digitale
“Fin dai miei esordi ho avuto questa idea che definirei di falsificazione autentica, ovvero non fare cose nuove, ma elaborare immagini già esistenti nella memoria collettiva, immagini di cui ognuno si appropria”.
A esprimersi così è Luc Tuymans, uno degli artisti più influenti della nostra epoca. Pittore ma anche curatore importante. L’ultima mostra – Sanguine, un confronto sull’idea del barocco tra arte classica e contemporanea – l’ha organizzata l’anno scorso alla Fondazione Prada.
L’artista è nato in Belgio nel 1958, a Mortsel vicino Anversa. Studia a Bruxelles e si diploma all’accademia d’arte di Anversa nel 1982 quando ha già cominciato a dipingere, ma per mantenersi agli studi fa lavori di ogni tipo. Una particolarità della sua storia familiare lo influenzerà molto negli anni della sua maturità: durante la Seconda guerra mondiale la madre aveva militato nella resistenza olandese. Quando Luc era già grande scopre che invece due fratelli del padre erano stati dei fiancheggiatori della gioventù hitleriana. Oggi l’artista vive con la moglie – l’artista venezuelana Carla Arocha – ad Anversa.
A Venezia, a palazzo Grassi, è in corso una notevole mostra, la sua prima antologica in Italia, La Pelle, dove sono esposte sue opere dagli anni Ottanta fino al 2018. Molte sono della collezione Pinault, altre sono prestate da istituzioni e privati, alcune sono della galleria David Zwirner che per prima puntò sul suo lavoro. E non deve stupire se l’artista è molto apprezzato dai grandi tycoon del lusso: in fondo sono loro, oggi, i più grandi sostenitori dell’arte.
Il titolo è ispirato al libro di Curzio Malaparte che l’artista stima meno come scrittore che come intellettuale “scomodo”, contraddittorio, capace di previsioni fulminanti come quella della Pelle in cui prevede l’invadenza e l’egemonia del modello americano in Europa.
L’arte di Tuymans si nutre di due intuizioni dimostratesi di grande lungimiranza. La prima è l’uso della pittura tradizionale, l’olio su tela, – medium che negli anni Novanta sembrava definitivamente tramontato – che, con una breve pausa alla fine degli anni Ottanta quando si dedicò allo studio della storia dell’arte, al video e alla fotografia, l’artista ha coerentemente praticato per tutta la vita.
La seconda, fondamentale, intuizione è quella cui fa riferimento la sua frase in apertura.
Tuymans non ha mai dipinto soggetti “dal vero”. Ha sempre rappresentato immagini di immagini. Dapprima fa uso di polaroid, che lui stesso scattava, pagine di giornale, frammenti della televisione, di video, di cinema. In un certo senso l’artista applica alla pittura la riflessione che all’inizio degli anni Sessanta il sociologo e filosofo Marshall McLuhan portava avanti sui mezzi di comunicazione di massa. L’inautenticità della trasmissione dei saperi dovuti al degrado dei mezzi su cui venivano riprodotti. Inautenticità e degenerazione. Casualità forse. Oggi la fotografia su pellicola e la Polaroid sono strumenti superati. C’è il telefonino che produce miliardi di immagini in movimento e no. E le immagini dei giornali, le riproduzioni pubblicitarie, gli stimoli che provengono dal video, dal cinema sembrano quasi obsoleti.
Tuymans lavora su questo processo degenerativo da 25 anni e oggi anche lui fa uso di immagini riprese dal cellulare.
E la coerenza della sua ricerca, la fedeltà al suo stesso linguaggio, sono testimoniate dalle opere in mostra. Dai piccoli dipinti degli anni Novanta Bloodstains (Macchie di sangue) del 1993 e Fingers (Dita) del 1995, ai grandi dipinti come The Book (Il libro) del 2007 e My leg (La mia gamba) del 2011. Immagini apparentemente casuali. Dalla quotidianità sconcertante del riprodurre un gioco come quello di riprendere le proprie dita o la propria gamba accavallata su un divano, all’immagine probabilmente di una rivista scientifica di globuli rossi, al magnifico The book che riproduce l’interno di una chiesa barocca ma che nel quadro, di più di tre metri per due, si rivela essere la riproduzione di un libro, con tanto di piega nel mezzo dell’immagine.
Ma la ricerca visiva dell’artista va anche oltre. Untitled (Still life) del 2002 è stato dipinto per il primo anniversario dell’attentato alle torri di New York. È semplicemente una natura morta. Che però misura 347×500 cm. Enorme, probabilmente la più grande natura morta mai dipinta nella storia dell’arte: l’effetto di un soggetto così familiare in proporzioni così esagerate è straniante. Anzi è propriamente alienante. Come sono conturbanti altri soggetti apparentemente “innocui”: Brokaat del 2016, particolare di una stoffa sviluppato per due metri d’altezza, Pillows del 1994, l’ombra di cuscini appena leggibili, Candle del 2017 e Sundown del 2009, in cui sono riprodotti con una tecnica che si apparenta alla pittura astratta l’alone di luce di una candela e l’effetto cromatico di un tramonto.
Chiaramente Tuymans è un artista fortemente politico, esplicitamente schierato. Ma anche la sua militanza ha un vago sapore dejà vu. Se per l’11 settembre dipinge una natura morta, Tuymans esprime la sua filosofia attraverso la descrizione della banalità del male: la solitudine nella serie Against the Day, il malessere, la malattia, con la serie The diagnostische Blick, l’alienazione con lo stupendo Big Brother del 2008.
Manca purtroppo in mostra il suo dipinto-manifesto Gaskammer del 1986 – in cui un ambiente quasi domestico si rivela essere una cella delle esecuzioni di Auschwitz – e la serie vista alla Biennale di Venezia del 2001 Mwana Kitoko, Bel ragazzino, sulla visita di Re Baldovino del Belgio in Congo. Ma ci sono due dipinti altrettanto forti: Issei Sagawa. Due ritratti, ma viene da dire due ombre, due immagini “qualsiasi” del ragazzo giapponese che nel 1981 invitò a studiare una sua collega di università, la uccise e se la mangiò, documentando in video il fiero pasto. È stato lo stesso artista ad affermare che “la violenza è l’unica struttura alla base del mio lavoro”.
Accusato – proprio per l’uso delle forme degenerate delle immagini – di dipingere in maniera approssimativa – l’artista in realtà esprime una pittura tonale di straordinaria raffinatezza. Il risultato è che i suoi dipinti hanno la caratteristica che tutti i quadri dovrebbero possedere: sono bellissimi.
La pelle – Luc Tuymans, Venezia, Palazzo Grassi, fino al 6 gennaio 2020
Immagine di copertina: Sundown, 2009