La sfida di “Cafarnao”: genitori vi denuncio per avermi messo al mondo

In Cinema

Zain Alrafeea, protagonista dodicenne del film diretto dalla brava regista libanese Nadine Labaki, premio speciale della Giuria al Festival di Cannes 2018, porta in tribunale padre e madre per avergli dato la vita, costringendolo poi a sopravvivere nel degrado assoluto della Beirut più povera. Dove la sorellina è stata uccisa da un “marito” brutale. Ma c’è chi è ancora più paria di lui: il piccolissimo Yonas, clandestino senza identità e senza casa, figlio di un’immigrata etiope. Un vero invisibile

Zain (Zain Alrafeea), il protagonista di Cafarnao della 45enne interprete e regista Nadine Labaki, ha dodici anni e le catene ai piedi, oltre che le manette ai polsi. È finito in prigione, condannato per lesioni gravissime dopo aver accoltellato un uomo, il “marito” della sorellina poco più piccola di lui, di cui ha causato la morte con un rapporto sessuale. Ma quando il film si apre, siamo in un tribunale di Beirut per un altro motivo: il piccolo Zain è diventato una star mediatica perché ha avuto l’ardire di citare in giudizio i propri genitori, accusati di averlo messo al mondo, insieme a una quantità di fratelli e sorelle: tutti invariabilmente abbandonati a loro stessi, a una vita di stenti, violenza, continua fatica quotidiana, senza nemmeno una prospettiva futura.

Attraverso una serie di flashback, vediamo scorrere sullo schermo la vita di Zain e della sua famiglia, una situazione di disagio economico, sociale e morale talmente profondo da apparire senza via d’uscita. Ma Zain finirà con l’imbattersi, nel suo girovagare disperato e ribelle, in qualcuno che sta ancora peggio di lui: un bambino di colore, di un anno o poco più, figlio di una profuga etiope, condannato a vivere nascosto, a non avere identità, a non esistere, semplicemente, perché le leggi che regolano l’immigrazione, il lavoro, le frontiere sono spesso assurde, nella loro totale incapacità di tenere conto dei complicati intrecci vivi e veri fra le persone. Che non smettono di essere persone solo perché sono entrate clandestinamente in un paese, solo perché non possiedono una carta di identità che stabilisca il loro diritto di esistere, un passaporto che permetta loro di viaggiare e di essere trattati come individui, portatori di diritti e desideri.

Temi forti, impegnativi, a tratti quasi intollerabili quelli trattati da Labaki nel suo terzo lungometraggio, Cafarnao, il cui titolo rimanda alla cittadina della Galilea dove secondo i Vangeli avrebbe abitato e predicato Gesù dopo aver lasciato Nazareth: il film, candidato ai recenti Oscar e ai Golden Globe, era stato vincitore del premio della Giuria al Festival di Cannes 2018. Dopo il delizioso e graffiante Caramel (2007) e il pacifista E ora dove andiamo? (2011), la cineasta libanese ha abbandonato risolutamente il terreno della commedia per abbracciare una dimensione drammatica che sembra davvero lasciare poche speranze.

Eppure, nello sguardo diritto e sfrontato che il giovane protagonista rivolge alla macchina da presa, nel suo corpo fragile eppure indomito, sembra raccogliersi, in qualche modo condensarsi tutta l’inesausta energia vitale dei bambini, anche quelli invisibili, portatori comunque – a volte anche loro malgrado – di un’inesauribile idea di futuro. Di una possibile speranza di cambiamento, anche nel bel mezzo delle peggiori tragedie della nostra epoca. La stessa regista compare brevemente nei panni di una battagliera avvocatessa, ed è l’unica attrice di mestiere in un cast totalmente composto da non professionisti: in prima fila il piccolo Zain, nella realtà un profugo siriano rifugiato in Libano, alla sua prima esperienza di recitazione, capace di un’intensità che lascia stupefatti.

Cafarnao di Nadine Labaki, con Zain Alrafeea, Yordanos Shifera, Boluwatife Treasure Bankole, Kawsar Al Haddad, Fadi Youssef.

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