CITTÀDIMILANO è un posto sott’acqua che racconta storie antiche e nuove: l’esistere.
L’arte contemporanea può risultare non immediatamente accessibile, occorrono conoscenze e spiegazioni che possano valorizzarne i concetti per entrare con stupore nella sfera del comprensibile in cui ci si illumina e si esclama: “ah ecco, spiegata così acquista molto senso!”
Spesse volte, l’arte contemporanea incontra queste epifanie e così ci si potrebbe trovare a pensare, entrando a vedere la mostra CITTÀDIMILANO.
Giorgio Andreotta Calò immerge il fruitore in uno spazio subacqueo, in cui i colori delle cose vengono uniformati ed emergono soltanto se illuminati artificialmente, con torce.
Fin dall’apertura il percorso dichiara la propria poetica: un video in ingresso propone le esplorazioni subacquee del relitto sommerso “Città di Milano”, durante un’operazione di messa in posa di cavi Pirelli sottomarini.
L’accessibilità delle tematiche potrebbe essere direttamente proporzionale all’accessibilità dell’oggetto sottomarino: per fare luce sulle cose occorrono torce, fornite dalle guide che, come dei Virgilio, ci aiutano a scoprire le opere e a riemergere in superficie.
L’elemento dominante è quello assente: l’acqua. Sembriamo intrappolati in una dimensione atemporale, in cui le prospettive si invertono oppure, meglio dire, si specchiano su se stesse a pelo d’acqua.
La mostra è una raccolta di opere passate e presenti dell’Artista, che rappresentò l’Italia alla cinquantesettesima Biennale di Venezia.
Il percorso si snoda fra la serie di Clessidre, che sono calchi di antiche palafitte veneziane, riproposte specularmente e congelate in un eterno bilico, ma anche riflesso.
Mitili di Pinnae Nobilis in scala 1:1 abitano l’area espositiva, si appropriano degli spazi, lo riempiono di esistenze silenziose, mentre a pavimento sono adagiati una serie di carotaggi: la serie, chiamata Produttivo, è formata da campionamenti cilindrici di terreno e roccia del Sulcis, fragilissimi eppure così testimoni di compattezza. Sono come parole su quaderni a righe, ci espongono gli abissi delle montagne, stesi, arresi, accessibili, per chi sa leggerli.
La loro disposizione spaziale invita il visitatore a circuirli, costeggiarli come quasi a formare una serie di isolotti, un arcipelago: è l’omaggio alla laguna veneziana, città natale di Giorgio Andreotta Calò.
L’opera che per Giorgio Andreotta Calò rappresenta il punto di partenza tematico e narrativo della mostra è Volver: una scultura-scafandro realizzata dalla barca che nel 2008 navigò sui tetti di Milano in zona Lambrate, appesa a una gru, in occasione della prima personale dell’artista, presso la Galleria Zero.
L’azione terminava sulla terrazza della Galleria, dove l’imbarcazione veniva tagliata in due parti e adagiata sopra a un sottile specchio d’acqua.
Qui, come un testimone che ha già detto tutto, è proposta come una conchiglia chiusa, che custodisce il segreto svelato solo dalla riproduzione di una serie di diapositive, documenti originali della performance.
Si prosegue, in modo fluido, osservando l’immagine impressa in negativo di una Milano vista dall’alto, dal grattacielo Pirelli in questo caso. La stampa stenopeica di oltre 10 metri su carta fotografica impressionata dalla luce naturale, ci regala l’immagine esattamente come il nostro bulbo oculare la immagazzinerebbe prima di riproporla allo sguardo: girata al contrario.
L’effetto, ancora una volta invita alla profondità, lasciando il cielo, impresso di nero per l’effetto della luce, a testa in giù, come quasi a simboleggiare l’abisso.
CITTÀDIMILANO è una mostra altamente poetica, da concetti profondi che richiamano le nostre origini, le nostre indagini intrinseche, ancestrali, le nostre immersioni per emergere, poi, più consapevoli che tutto è collegato, che persino sott’acqua esistono invisibili e solidi legami, cavi che ci permettono di sentirci tutti meno soli.
Immagine di copertina: Giorgio Andreotta Calò, Produttivo, 2019 (dettaglio), commissionata e prodotta da Pirelli HangarBicocca, Milano, 2019. Courtesy dell’artista e Pirelli HangarBicocca. Foto: Agostino Osio