Al Piccolo va in scena il capolavoro della maturità di Ibsen
Ibsen scrisse nel 1892, quasi in finale della sua partita (morì 78enne a Oslo nel 1906) Il costruttore Solness quando era, come scrisse Shaw, “nello splendore glorioso del tramonto”. Il grande autore norvegese che poi produrrà ancora Il piccolo Eyolf, il Borkman (arriva la stagione prossima con Lavia, da non perdere) e Quando noi morti ci destiamo, fa della crisi di Solness un riassunto dei falsi miti e della falsa coscienza della classe borghese da lui osservata al microscopio nel mirino di varie patologie pre freudiane e pre femministe, da Spettri a Casa di bambola.
In questi ultimi anni c’è stato da parte dei teatranti un ritorno di fiamma per Ibsen – caro a Ronconi di cui non si dimentica L’anitra selvatica – la Fracassi e Micheletti hanno dato il meglio prima in Rosmersholm e in una magica rilettura di Peer Gynt e Massimo Popolizio sta replicando a Roma Le colonne della società.
Solness, che lo stesso Ronconi aveva suggerito a Orsini, è lo spettacolo della fine, della rinuncia alle suggestioni più facili, dell’accettazione dei giovani sempre ostacolati con cinismo, come dice il protagonista in molte battute. Orsini, che per molti versi tiene a identificarsi col non eroe del titolo (tanto che nel suo libro autobiografico Sold out i richiami sono continui) ha invece sposato spesso la causa di talenti innovativi, dalla collaborazione con Pippo Delbono alla Tempesta con la regìa di De Rosa. Ed ora questo Ibsen, da lui prodotto come sempre, riletto con molta suggestione visiva dal giovane e talentuoso regista di Macbettu, Alessandro Serra.
C’è stato, chiaro, un match teatral generazionale in cui Orsini parte dalle prove a tavolino come gli hanno insegnato Visconti e De Lullo, mentre Serra tiene all’illuminazione scenotecnica visiva e la parola, quindi la trama e quindi anche il soggetto, passano in secondo piano anche per colpa di tagli molto, forse troppo sostanziosi al testo.
Un testo difficile, molesto percorso da rumori e suoni sinistri, che finisce con un sacrificio e che raccoglie l’eredità di un uomo di successo self made che in Italia pochi hanno recitato: ci Ricci nel ’49 e Raf Vallone nel 1976. La storia finisce qui. In modo emblematico e biografico, Ibsen ripercorre in questa ultima fase della sua vita, i suoi successi gustati con piacere dato che, leggendo le memorie di Misia Sert, madrina della belle èpoque, si ha notizia di un incontro in cui lo scrittore guardava di continuo il fondo del suo cappello a cilindro dove era posto uno specchietto segreto in cui rimirarsi. Che belle le contraddizioni. Nel suo teatro c’è tutto ma non la vanagloria e se c’è viene punita come massimo vizio e plus valore economico borghese contro cui si scontrano, come in “Solness”, episodi della giovinezza e non risolti complessi di colpa tornati a galla.
Solness, l’architetto che ha parlato con Dio e che da Dio è stato tradito (prima l’incendio della casa, poi la morte dei suoi due piccini), è un uomo abitato dai demoni, che ha barattato la sua felicità e stabilità con quella altrui, scotto pagato dagli artisti che raggiungono la fama. Solness cerca la guglia più alta e la trova alla fine, ha la voglia gotica di salire sempre di più (citata anche da Steiner nella Dolce vita), teme i giovani e soffre la Vertigo hitchcockiana di James Stewart e Kim Novak. È un titano nel senso dei grandi capitalisti di Dreiser, ma Ibsen è autore del profondo Nord che si lega a Strindberg e chiama dal profondo il Bergman che verrà. Pagherà tutto insieme, l’aver recluso un giovane collega di talento, aver ridotto la moglie a una silenziosa schiava compagna: cadrà dall’alto come la fine del Superuomo lasciando alla ragazza che aveva sedotto il suono di un’arpa.
Di un testo così complesso e ripieno di nevrosi e crisi oggi venute allo scoperto, lo spettacolo di Orsini è come un avviso di chiamata: rinunciando allo stile naturalistico che si addice in prima battuta a quel teatro, il regista tira Ibsen dal suo lato nascosto, metaforico, subliminale e ne viene fuori qualcosa a volte di molto seducente con un’imponente scenografia che schiaccia l’uomo con tutte le sue pretese, nello spazio perfetto del Piccolo di via Rovello dove lo spettacolo sarà in scena fino al 12 maggio.
Ci sono momenti indimenticabili nella regìa di Serra: il riempirsi dei personaggi, sette, tutti una stanza con la porta che sbatte (come in un famoso gag dei fratelli Marx) e il colloquio col dottore che diventa semplicemente con l’accensione di una lampada una seduta psicanalitica.
Fa discutere questo Solness, uomo che deruba le felicità altrui per costruirne una propria, ma alla cui porta bussa finalmente la donna che gli provoca la definitiva crisi di coscienza (Lucia Lavia, brava come sempre).
È la storia di tanti assassinii dice Orsini che dall’alto dei suoi 85 anni guarda Solness con aria di sfida, con quella voglia di andare sempre oltre nello spregiudicato esercizio del potere anche nei confronti di se stesso. Un Orsini d.o.c. che arriva a Solness dopo essere stato in prima persona il costruttore di una esemplare carriera di attore che ora si trova di fronte allo specchio di un personaggio che ama e disprezza, ma lo induce nella teatral tentazione del grande volo.
Immagine di copertina © Alessandro Serra