The Brink è il documentario su Steve Bannon firmato da Alyson Klayman e prodotto da Marie Therese Guirgis che ben conosce il teorico del suprematismo bianco che sta cercando di creare un’internazionale sovranista il cui peso si valuterà alle prossime elezioni europee. Un ritratto interessante e in qualche modo controverso, come ogni opera che sfaccetta la personalità del cattivo di turno
Non sapremo fino al 26 maggio se e quanto, anche grazie a Steve Bannon, avrà successo alle elezioni europee 2019 la destra populista, nazionalista, sovranista, o come la volete chiamare, quella comunque che va da Salvini a Le Pen, da Orbàn a Farage, per citare i suoi esponenti più rilevanti. Quello che invece è noto a tutti è il decisivo contributo dell’ideologo del suprematismo bianco, della xenofobia e della contrapposizione razziale all’ascesa alla presidenza di Trump, anche se The Donald nel 2017, pochi mesi dopo la vittoria, l’ha allontanato dal suo team, forse per qualche frequentazione troppo impresentabile perfino per lui. Singolare sorpresa, in verità, perché tutti conoscevano l’apprezzamento del Ku Klux Klan per Bannon e il suo ruolo di cofondatore di Cambridge Analytica, la compagnia coinvolta nello scandalo della vendita dei dati degli utenti di Facebook. Nemico del femminismo, che considera una fra le peggiori catastrofi contemporanee, Bannon nel recente passato ha diffuso, attraverso la piattaforma Breitbart News Network odio a piene mani per gli immigrati e per gli ebrei.
Se poi sia effettivamente un politico così lucido e preveggente, uno stratega capace come pochi di maneggiare i social media e capire le mutevoli tendenze dell’elettorato, soprattutto quello, diciamo così, più istintivo, e non piuttosto, forse soprattutto, un abilissimo propagandista di se stesso, capace di prendersi meriti in parte (poca o tanta) non suoi, non lo rivela del tutto neanche The Brink, il film in presa diretta sul personaggio girato da Alison Klayman, autrice qualche anno fa di Al Weiwei: Never Sorry, un bel ritratto dello scomodo artista cinese. Passato all’ultimo Sundance Festival e ora distribuito in Italia da Wanted e Feltrinelli Real Cinema, il film in qualche modo, si propone di capire, e di spiegare al pubblico, quanto il Bannon privato spieghi il Bannon pubblico più che viceversa. Ovvero quanto la sua figura, il carisma più che le idee, siano alla base della sua potenza di influencer. Di certo, prima di convincere gli elettori, Steve è stato abile nel persuadere i potenti del mondo a servirsi dei suoi metodi politici e delle strategie di conquista del consenso. Importanti assai più che le sue teorie, le quali, anche dopo aver visto questo film, restano più che mai nebulose. Ma forse sarebbe meglio dire scarne. Perché se su gran parte dei problemi che affliggono il mondo (povertà crescente, degrado dell’ambiente, guerre diffuse, disparità sociali) non pare davvero aver molto da dire (neanche di destra), la sua forza sta invece nell’abilità di puntare sempre su pochi chiodi fissi (migranti invasori, finanza rapace, elite egoiste) e nell’aver capito che per vincere in politica si devono divulgare poche idee a molti, invece di cercare di spiegare molte idee, che inevitabilmente arriverebbero a pochi. Lo diceva anche Lenin, nel 1917.
Per realizzare The brink, prodotto da Marie Therese Guirgis, ex collaboratrice di Bannon e come Alyson Klayman personalità decisamente progressista, la troupe ha seguito per più di un anno Steve Bannon, fin da quando, nell’aprile 2017, l’ex stratega fu allontanato dalla Casa Bianca. Nonostante si vantasse di aver ispirato alcune politiche difensive presidenziali, come il Muslim Travel Ban e il muro di separazione dal Messico, teorizzando che era stata la “divina provvidenza” a portare Trump al potere, nel film Bannon ammette che ogni minuto passato alla Casa Bianca è stato per lui una vera sofferenza, perché “un karma negativo regna sulla West Wing”. Elaborato quel lutto, Bannon apre per sé un nuovo fronte politico, avviando una campagna, tra Usa ed Europa, per dare vita a The Movement, organizzazione da lui creata per promuovere una politica sovranista e populista in grado di sfondare al di qua e aldilà dell’Atlantico, unendo vecchi e nuovi partiti di estrema destra, dallo Ukip alla Lega, dal Rassemblement National a Fidesz, ad altre sigle, anche più estreme, di Belgio, Germania, Svezia e così via.
Così nel film c’è il Bannon in trasferta italiana, che nel Lazio, nell’Abbazia di Trisulti, tenta di creare un incubatore per sovranisti europei, e poi a Venezia riceve Giorgia Meloni in una lussuosa suite con vista Canal Grande. Nel film, il presunto alfiere dei “miserabili” (è una sua definizione dell’area di opinione e sociale cui vuole rivolgersi) sembra spesso imbarazzato all’idea che lo si vedrà assai spesso su jet privati e hotel a 5 e più stelle, lui nemico della finanza mondiale. Poi c’è il Bannon rimpatriato, che cerca di far perdere il meno possibile a Trump le elezioni di medio termine (con scarsi successi, in verità), e il manipolatore infallibile della stampa e della tv (per lui non esistono “media negativi”), ma soprattutto il formidabile promoter di se stesso.
Spiega la produttrice Guirgis: “Vedevo spesso Steve dipinto come un genio del male, una mente magistrale, il cervello di Trump. A mio modo di vedere gli era stato dato troppo credito, e lui stava usando quell’immagine come strumento per mantenere, accrescere il suo potere. In verità non ha mai cambiato il suo modo di operare: è sempre stato un venditore, un banchiere d’investimento fermamente guidato dall’interesse personale. Bannon ha ottenuto un così gran potere per l’attenzione, l’importanza che i media gli hanno riservato. Trovavo tutto ciò frustrante, per questo ho voluto realizzare un documentario su di lui. Ho pensato che seguendolo a lungo avremmo potuto smascherarlo, e sarebbe stato un lavoro prezioso”. Aggiunge Klayman, regista e operatrice, spiegando perché ha utilizzato per il suo film la forma del ritratto diretto: “La natura del male e quella delle persone che mettono in atto politiche dannose per il mio paese sono argomenti ideali da esplorare attraverso questa modalità di fare cinema. Sentivo di avere una grande responsabilità: volevo stare dietro le quinte e avere accesso ad alcuni momenti di vita veramente rivelatori del personaggio. Bannon ha l’abilità di presentare le cose in modo distorto, di prendere in giro se stesso e di prendersi gioco degli altri. La mia idea iniziale è stata quella di fare un film serio, certamente, ma in cui fossero presenti magari anche alcuni elementi divertenti”.
Bannon ne è uscito più “umano”, o addirittura come un gran simpatico? Klayman l’ha incalzato troppo poco, peggio ancora gli ha offerto un involontario proscenio per mostrare come la sappia più lunga di tutti noi che lo odiamo e combattiamo? Forse, in parte, ma è anche vero, come dice la stessa regista che “tutti siamo spesso portati a pensare che i nostri nemici siano dei mostri, ma in realtà sono esseri umani, ed è proprio questo che li rende ancora più spaventosi”. E pericolosi. In più va detto che è difficile (e spesso cinematograficamente pernicioso) mettere al centro di un film un personaggio, vero o di fiction che sia, per dedicarsi solo alla sua demolizione. Oliver Stone non l’ha fatto né con Putin, che dal suo film esce come grande statista (forse la cosa è pure vera) e ancor meno nel tenero ritratto di Fidel Castro, il cui bilancio politico, anche per noi che da giovani stravedevamo per lui, non è poi così lusinghiero, vista la Cuba di oggi. Ma neanche i cattivi di Star Wars & Co. sono del tutto privi di qualche lato appealing, perché altrimenti che protagonisti sarebbero? In The Brink (il cui titolo, spiega ancora Klayman indica “qualcuno che spinge tutto al limite e continua a andare avanti. Lui vive e prospera ‘sull’orlo’ e in questo momento su quell’orlo dell’abisso ci siamo tutti noi”), Bannon è autoironico, sa come portare dalla sua il pubblico e pure i suoi interlocutori politici e, in fondo, dice la produttrice del film, ha modi anche abbastanza gentili, da uomo del passato. Questo non ne riduce certo la potenzialità negativa, politica e umana. Oltre che reazionario, retrivo e sciovinista, purtroppo non è stupido, scontroso e musone: e questo c’entra con la temuta propensione di molti a votare le idee e i ripugnanti leader che propone, avendo, già con ogni evidenza, contagiato, negli Usa e in Uk, in Italia e in Francia, molti elettori un tempo progressisti. Ma non sono, queste, cose che dobbiamo sapere, per cercare di fronteggiarlo?
Ancor meno è colpa del film se dall’altra parte non emergono argomenti, leader, strategie convincenti, se i partiti progressisti, i loro dirigenti tentennano e spesso si dedicano soprattutto a faide interne, mentre l’Europa viene espugnata da “barbari” come lui. Abbiamo detto per anni che Berlusconi e i suoi omologhi vincevano le elezioni perché sapevano usare la tv e ne erano proprietari, cosa vera. Ma negli stessi anni hanno vinto pure politici diversi come Clinton, Prodi, Zapatero, Obama. Perché anche i leader democratici di oggi non sanno usare efficacemente Facebook e Twitter per diffondere le loro idee? Certo ci vogliono soldi, ma soprattutto know how, e forse si può trovarlo. Tutto questo non è un’esclusiva di Bannon: ha quasi 70 anni, di sicuro non è un nativo digitale.