Gli eccellenti Steve Coogan (britannico, nello smilzo ruolo di Stan Laurel) e John C. Reilly (americano, negli ingombranti panni di Oliver Hardy) danno vita a un biopic struggente e realistico, che racconta gli ultimi e malinconici anni della coppia. Ormai passati i grandi successi a Hollywood, sono ancora vittime di un produttore che li sfrutta fino all’ultimo, organizzando una mesta tournée inglese in teatri semivuoti. E lì alternano bilanci esistenziali e spettacolari esibizioni: perché la verve, non se ne va
Nel 1953, Stan Laurel (Steve Coogan) e Oliver Hardy (John C. Reilly) hanno imboccato già da tempo la china discendente. Il momento d’oro della loro carriera (fra gli anni Venti e i Trenta, e in parte fino a metà anni Quaranta) è ormai passato e i due attori sono stati costretti ad accettare una tournée in Inghilterra, in piccoli e semivuoti teatri di provincia nel disperato tentativo di convincere un produttore a finanziare un film (che mai vedrà la luce) dedicato alla leggenda di Robin Hood. Milioni di persone in tutto il mondo ancora si divertono anche solo a sentirli nominare, ma Hollywood scommette ormai su nuovi divi, e su meccanismi comici diversi e inediti (quelli che porteranno al successo, per esempio, Bud Abbott e Lou Costello, ovvero Gianni e Pinotto). Laurel e Hardy si ritrovano così ad affrontare umiliazioni e ristrettezze, momenti tristi e difficoltà di vario genere, ma potranno sempre contare sulle risorse di Stanlio e Ollio: i due personaggi che hanno saputo creare riusciranno infatti, quasi loro malgrado, a tenere alta la bandiera della dignità e del talento, e a strappare incontenibili risate anche al pubblico più stanco e distratto.
Laurel e Hardy, piccoli uomini a tratti pavidi e a volte iracondi, spesso narcisi e talora traditori, ambiziosi, forse superficiali, di certo dissipatori di denaro e di passioni, vengono raccontati in Stanlio e Ollio dello scozzese Jon S. Baird – al suo terzo film – senza indulgenza ma con immenso affetto e umana comprensione. Fin dal lungo piano sequenza che mirabilmente apre il film, in cui seguiamo i due protagonisti, di spalle, mentre camminano e chiacchierano attraversando gli studios per arrivare sul set di un film leggendario: I fanciulli del West. Parlano delle loro passioni e dei loro guai, di scommesse fallimentari sulle corse di cavalli e di ex mogli esose che pretendono cospicui assegni di mantenimento. Stan collezionerà nella vita cinque mogli, Oliver soltanto tre, ed entrambi riusciranno a dimostrare un ben scarso talento nella gestione quotidiana di contratti, matrimoni e affari, a partire dagli accordi con Hal Roach (interpretato da Danny Huston, figlio del grande John), il produttore che li aveva lanciati e che fino all’ultimo fece di tutto per sfruttarli, costringendoli anche al reciproco tradimento.
Non è certo il primo film a mostrare la faccia malinconica delle risate, e quanto impegno, intelligenza e ossessività possano celarsi dietro gag apparentemente facili e immediate. Ma la storia del sodalizio artistico fra l’inglese Stan Laurel e l’americano Oliver Hardy non somiglia a nessun’altra, nel suo impasto di talento sovrumano e umanissima fragilità, strepitosa fantasia e gioiosa creatività. Un irresistibile inno all’amicizia che assume la forma di un biopic divertente e a tratti struggente, dove i nostri eroi sul viale del tramonto strappano risate di cuore e suscitano autentica commozione, fra un balletto e una canzoncina, una gag dai tempi comici irresistibili, degna di uno slapstick dell’epoca del muto, e un dialogo scoppiettante di ironia e tenerezza.
Se il risultato è tanto convincente, gran parte del merito va naturalmente ai due attori protagonisti, perfettamente mimetici nella loro aderenza ai personaggi. Ma se per l’inglese Coogan (nel suo curriculum recente Philomena, Una notte al museo, Il professore e il pazzo) calarsi nei panni dello smilzo Stanlio forse non è stato fisicamente così difficile – è bastata una protesi al mento e un po’ di trucco per le orecchie a sventola – per l’americano John C. Reilly (di recente interprete di Carnage, Il racconto dei racconti, I fratelli Sisters) è stato di certo ben più impegnativo raggiungere l’immensa stazza di Ollio – che all’epoca era arrivato a pesare 180 chili – grazie a quattro ore quotidiane di trucco e a ingombranti tute di poliuretano espanso, talmente calde da portare l’attore sull’orlo del collasso.
Accanto a Coogan e Reilly, spiccano anche Shirley Henderson e Nina Arianda, rispettivamente nei panni di Virginia Lucille Jones, terza moglie di Oliver, e della russa Ida Kitaeva Raphael, l’ultima e la più longeva delle tante mogli di Stan, in grado miracolosamente di resistere dal 1946 fino alla morte dell’attore, nel 1965.
Stanlio e Ollio, di Jon S. Baird, con Steve Coogan, John C. Reilly, Nina Arianda, Shirley Henderson, Danny Huston.