The Repetition, Histoire(s) duthéâtre (I). È questo il titolo del nuovo progetto artistico del regista e drammaturgo svizzero Milo Rau, in scena al Piccolo Teatro di Milano dall’8 al 10 maggio. Una presentazione per entrare nel vivo della sua maturata genialità e per parlarvi del suo nuovo spettacolo “neo-tragische”
Quello di Milo Rau è sempre stato il desiderio di trasformare il classicismo tragico in una continua allegoria moderna, senza rappresentare veramente ciò che c’è di tradizionale e classico nel teatro, pur essendone immerso totalmente fino al collo.
E per questo motivo che al vincitore dello Swiss Theatre Award del 2014 è bastato ancora relativamente poco per impressionare la lastra fotografica del suo operato artistico e intellettuale.
Pertanto, se in una notte d’aprile, nel 2012, un uomo viene brutalmente torturato e assassinato da un gruppo di poveri e violenti disgraziati, nel rinvenire il suo corpo maciullato rinviene anche una forma emozionale che ispira Milo Rau; partendo dalla realtà democratica dei fatti, si passa alla finzione stracciata e verosimile di un teatro di redivivi, prendendo forma l’“Histoire” del dolore.
Il pubblico è tormentato e sconvolto perché sulla scena fosca e semibuia delle performance di Rau viene evocata non tanto la morte e l’ingiustizia pura, ma la litote di queste: la non-vita e la non-giustizia. Un’esperienza che sin da subito è intrisa di sangue e si consuma in un crimine espiatorio, in una catarsi che ricorda quella del capro delle Panatenee.
L’epidermide dei protagonisti patisce l’autolesionismo in ogni battuta, che sia o meno impressa su una pellicola o letta da un copione; basti pensare per esempio a The Congo Tribunal (2015), il film ripresentato alle giornate del cinema svizzero a Venezia lo scorso anno. Ogni scena del film è catalogata a partire da un male sociale e tutto ciò che effettivamente è inspiegabile diventa la ricostruzione della scatola teatrale che Milo Rau ha sempre preferito riempire.
Ciò che viene a galla nel Flegetonte delle storie di Rau è la naturalezza dei linguaggi, spontanei, dell’uomo trafitto dalla sua stessa inconsapevolezza, un realismo tale da garantire a questo regista il titolo di neo-Brecht del panorama contemporaneo.
Un’altra caratteristica a dir poco unica è poi la capacità di contenere il rito nel mito e non viceversa, come direbbe Burkert. Ogni scena, ogni istante viene pensato per raccontare un crimine umano che per Rau è il momento d’esperire un bisogno meccanico, talvolta fin troppo.
Milo Rau è un regista che rinnova, maestro di performance e di versatilità tecnica; come si evince anche dai suoi ultimi spettacoli – si pensi a The Civil Wars (2014), The Dark Ages (2015) o in particolare a The 120 Days of Sodom (2017) – la parola d’ordine per cercare il mann sta impressa nel fetido realismo della coscienza umana.
L’istante collettivo del pubblico si immobilizza e vive spesso un’esperienza passivizzante. Se pensiamo che due anni fa ciò che ha scandalizzato maggiormente la platea delle sue pièce è stato vedere recitare ne Le 120 giornate di Sodoma attori affetti dalla sindrome di Down, ciò ci rende incapaci di accettare quella normalità e quella parità che fingiamo di capire come pocriti reietti.
Le “sculture sociali” che si eseguono sotto le direzioni interpretative di Milo Rau volgono a una controversia decisiva: si invita a nominare la “diversità scenica” del contenuto storico senza un preciso ordine o una precisa sostanza, e questo fa del teatro di Rau un teatro non troppo avanguardistico né troppo neorealista, ma inequivocabilmente immediato e forte, come dopotutto sono le reazioni turgide e dense che riesce a provocare la sua denuncia sociale.
Se un quotidiano grida allo scandalo, riporta tragedie e malefatte pubbliche, tutto ciò che in pratica manda avanti la comunità mondiale, tutto questo ritorna sul palco e si fonde con delicatezza ed empatia nella chiara autenticità drammaturgica di Rau.
Assistendo a The Repetion, quella che si ripeterà sarà la sequenza franco-fiamminga di battute, sopratitolate in italiano, di una premeditata coincidenza con lo schwarzes Schicksal (Fato nero).
Gli attori diventeranno giudici e contemporaneamente imputati di un’inchiesta in forma di spettacolo sul teatro e sui temi più attuali della sua centrale rappresentazione. L’essenza teatrale, come l’essenza di un profumo che lascia la sua scia, deforma l’aria e la vizia, appesantendone il contenuto con uno stile che infastidisce e turba lo spettatore, ma lo fa in modo intelligente seppur blasfemo.
IMMAGINE © HUBERT AMIEL