In un andirivieni tra poesia, filosofia, letteratura e cinema, Gabriele Lavia traccia una propria autobiografia intellettuale ed emotiva
Gabriele Lavia torna a frequentare I ragazzi che si amano, la sua sfida con se stesso in nome di Jacques Prévert. In un tripudio di francofilia e di epistemofilia, Lavia usa il palcoscenico a mo’ di lavagna e brandisce una sigaretta “papier mais”, simulacro di francesità, agitandola nell’aria come un gessetto in mano a un professore pieno di sincera urgenza comunicativa, desideroso di condividere col suo uditorio le scoperte piccole e grandi fatte in una carriera pluridecennale.
Come molti docenti innamorati del loro lavoro, il Professor Lavia può spaventare alcuni alunni con il suo fuoco di fila di citazioni, col fervore con cui mima qualche etimologia dal greco o con i suoi spaesanti voli pindarici; altri lo fisseranno incantati invece come si guarda un fuocherello crepitante nel camino, e magari qualche scintilla illuminerà per un attimo la loro mente.
La missione principale di Lavia è smascherare la profondità e la verità che si celano dietro la quotidianità del linguaggio del Prévert poeta, ma – nell’adempimento zelante di questo obiettivo – l’attore-regista arriva per estensione anche a scoperchiare i vespai di concetti che si nascondono dietro alle parole che usiamo con maggiore frequenza e noncuranza.
Oltre che professore, ne I ragazzi che si amano (in scena all’Elfo Puccini fino al 12 maggio) Lavia è anche un prestigiatore, perché senza soluzione di continuità passa dalla parafrasi all’azione, diventando lui stesso le poesie di Prévert e raggiungendo – nel migliore dei casi – risultati ipnotici, come quando incarna La disperazione è seduta su una panchina, sulfureo pezzo di bravura.
I ragazzi che si amano è comunque anche una sfida a Lavia in nome di Lavia stesso: confidando nella complicità del pubblico, o almeno degli “alunni” fidelizzati, l’attore-regista traccia una propria autobiografia intellettuale ed emotiva, in un andirivieni tra filosofia, letteratura e cinema, tornando spesso sui propri passi per aggiungere digressioni alle digressioni, quasi per anticipare le eventuali richieste di bis da parte del pubblico.
«I giovani sono sempre goffi», dice più volte affettuosamente, evidenziando per contrasto come l’esperienza abbia eliminato ogni goffaggine dalla sua recitazione; in virtù di ciò, può permettersi di giocare col fuoco, sia letteralmente sia metaforicamente, diluendo e aggrovigliando la tessitura del suo discorso. Quando recita la poesia Tre fiammiferi accesi, accende uno dopo l’altro dei cerini che non spegne fino a quando non ha finito ogni singolo verso, concedendosi anche degli eloquenti sospiri; poiché nessun fiammifero brucia allo stesso modo di un altro, alcuni aspettano la fine della battuta per ardere del tutto, altri no… quindi capita che Lavia si scotti le dita. Allo stesso modo, ogni spettatore reagisce in modo diverso alle sue digressioni: qualcuno freme impaziente, qualcun altro attende ammaliato. Quel che è certo, è che a guadagnarci maggiormente sono quelli che attendono: il Professor Lavia la sa lunga.